Lo avete capito: a me La Teoria dell’Attaccamento piace. Piace perché sul piano clinico funziona bene sia nello spiegare i comportamenti delle persone sia nella programmazione di un intervento psicoterapico (con una persona dallo stile evitante lavorerò in modo diverso che con un invischiato, per dire).
Se l’articolo dell’altra volta era però di stampo prettamente tecnico questa volta mi piacerebbe rendere l’argomento divertente anche ai non addetti ai lavori. Ci pensavo l’altra sera quando mia figlia ascoltava la canzoncina di Carletto (quella di Corrado, i figli degli anni ’80 se la ricorderanno): “Ed io che sono Carletto l’ho fatta nel letto l’ho fatta per fare un dispetto che bello scherzetto per mamma e papà” ed a me è venuta in mente quasi in automatico l’associazione con un disturbo esternalizzante del comportamento derivante da uno stile di attaccamento insicuro-ambivalente.
Così, mi sono detta, perché non prendere alcuni cartoni o protagonisti di libri famosi e passarli al vaglio della Teoria dell’Attaccamento per vedere dove potremmo collocarli?
Ma prima un breve ripasso: la Teoria dell’Attaccamento di J. Bowlby è stata concettualizzata nel secondo Dopoguerra ed ha costituito una frattura rispetto alle teorie psicodinamiche classiche dello sviluppo. Essa postula la presenza di una predisposizione innata negli esseri viventi, non solo negli uomini, a ricercare e mantenere una condizione di accessibilità fisica ed emotiva con la figura di riferimento o caregiver.
Possiamo immaginare tale diade comportamentale (attaccamento-accudimento) come un sistema di tutela evolutivamente vantaggioso per la sopravvivenza della specie stessa.
Il comportamento di attaccamento, evocato da eventi di pericolo, si esplicita attraverso la ricerca attiva del caregiver e/o richiamandone l’attenzione attraverso il pianto o l’appello verbale. L’allarme cessa quando hanno luogo la vicinanza o il ricongiungimento fisico e ciò consente al cucciolo di passare da stati di paura, ansia o tristezza a stati di tranquillità e di felicità. I comportamenti protettivi e rassicuranti del caregiver sono comportamenti complementari a quelli del piccolo e prendono il nome di comportamenti di accudimento.
L’attaccamento può essere di diverse tipologie: grazie al contributo di M. Ainsworth prima e di M. Main e J. Solomon poi, possiamo identificare quattro diversi stili: Sicuro, Insicuro Evitante, Insicuro Ambivalente e Disorganizzato. Qui parlerò solo dei primi tre.
Il bambino sicuro è un bambino che non è stato tarpato nell’esplorazione attiva dell’ambiente, che non è stato inibito nell’espressione delle proprie emozioni negative e che ha sentito come presenti in modo costante le sue figure di riferimento. Gli appassionati della saga di Harry Potter avranno sicuramente in mente la figura femminile per eccellenza del libro, Hermione Granger che, a differenza di Ron Weasly l’ansioso e di Harry Potter l’evitante è in grado di appoggiarsi agli altri senza dipenderne e di chiedere aiuto senza difficoltà. Seppure i genitori della ragazza appaiano poco nei libri essi comunque sembrano essere stati in grado di fornire ad Hermione tanto un bagaglio personale di competenze personali e di sicurezza da spendere nei momenti di difficoltà quanto una buona capacità di distaccarsi dalla base familiare in modo realmente autonomo ed indipendente.
Un bambino insicuro-ambivalente è un bambino con una figura di riferimento emotivamente calda ma percepita come “distratta”: da problemi personali, difficoltà di coppia, stanchezza mentale per altri figli o per il lavoro. A volte è sollecita nel rispondere alle richieste di cura a volte, imprevedibilmente, non risponde agli stessi richiami (per questo viene anche chiamata “a corrente alternata”) per cui il bambino per garantirsene la presenza deve “alzare l’asticella” del disturbo arrecato nell’ambiente. Una volta visto che la strategia(Se io urlo o piango più forte Mamma arriva) è vincente per la gratificazione del bisogno essa diviene rapidamente generalizzata in tutti i momenti in cui vi è una richiesta insoddisfatta dall’ambiente…E quindi via a show con pianti, testate, urla, comportamenti teatrali, comportamenti potenzialmente pericolosi per sé o per l’ambiente (stanze sottosopra, oggetti distrutti) fino ad arrivare a comportamenti minacciosi o pericolosi verso terzi. Sono bambini che imparano ad amplificare gli stati interni (sofferenza, tristezza, paura) a discapito delle informazioni cognitive relative ad essi per avere un controllo sulla loro realtà esterna. Sono bimbi che hanno sistematicamente imparato che le parole non sono attendibili nel descrivere la realtà (Per dire, è tipico lesempio delle nonne che dicono alle neomamme “Vattene che adesso non ti guarda” oppure “Amore la mamma va un attimo a fare la nanna” e poi la mamma esce di soppiatto) potendo quindi solo fare affidamento sui propri sentimenti.
Vi ricorda qualche cartone molto di moda adesso questo profilo psicologico? A me ricorda molto la storia della piccola Masha del fortunato cartone “Masha ed Orso”. In particolar modo c’è una breve sequenza in un episodio che mi ha fatto molto sorridere trovandola un buon esempio della strategia “coercitiva” (“Non ti scordar mai di me” cit.) di questi bimbi: Orso sta pescando, Masha si avvicina a lui perché vorrebbe giocare con i suoi attrezzi da pesca ma Orso li allontana dalla bambina. Masha inizia a protestare ma Orso la ignora. Masha comincia allora a fare un vero dramma con tanto di lacrimoni a cascata con un occhio chiuso ed un occhio aperto per “vedere di nascosto l’effetto che fa”. Orso stremato dalla situazione pur di far cessare il disturbo provocato dal pianto di Masha le da allora accesso all’intero armamentario da pesca. Il pianto immediatamente cessa (essendo stato un atto strumentale al raggiungimento di uno scopo e non un segnale di dolore o di tristezza) e Masha, tornata improvvisamente felice, gioca con tutto quello che desiderava.
Ci sono poi i bambini del gruppo insicuro-evitante. Sono bambini il cui caregiver ritiene che le manifestazioni di ricerca di protezione e cura non vadano accolte e soddisfatte perché “segno di debolezza”, perché “solo le femminucce piangono”, perchè “il bambino deve diventare autonomo quanto prima”, perché “non bisogna contare su nessuno”, perché magari le percepisce come un pericolo per sé attivandogli memorie traumatiche non risolte, perché fatica a sua volta nello “stare” con sentimenti ed emozioni di dipendenza affettiva temendole o non riuscendole a gestire… Insomma, per i motivi più disparati la figura di riferimento si mostra sistematicamente infastidita, si allontana o diviene addirittura minacciosa nei momenti in cui il bambino ha più bisogno di lei. Il piccolo, che impara le migliori strategie per sopravvivere all’ambiente in cui si trova a vivere adattandosi ad esso proprio come Darwin insegna, ad un certo punto associa che al pianto la figura di riferimento si allontana o lo maltratta. Impara quindi a non usare i propri stati interni come bussola di orientamento del comportamento e li inibisce. Se gli viene da piangere sorride, se vuole affetto perché ha paura si mostra spavaldo e così via perché questo è il solo modo utile di gestire la vicinanza con il caregiver che è essenziale alla sua sopravvivenza. All’estremo di questo spettro troviamo Pollyanna che addirittura si è meritata di dare il nome ad una “Sindrome” nel lessico psicoanalitico. La Sindrome di Pollyanna, o atteggiamento Pollyannico è tipico di persone che sistematicamente distorcono la realtà escludendo da essa ogni aspetto di spiacevolezza ed ogni emozione disturbante “negativa” percependo o ricordando di essa solo gli aspetti positivi o piacevoli (Vi ricordate il “gioco” che lei faceva no?). Venendo ai nostri tempi, Elsa di Frozen può essere un esempio di cosa succede ad un bambino cresciuto con il comando di ignorare o di trascurare le proprie emozioni: ella impara, in maniera distorta, a non fidarsi e a non affidarsi a nessuno, teme la vicinanza emotiva che, anzi, addirittura tende a “congelare” con chi continua a chiedergliela (nel cartone sua sorella Anna gioca bene il ruolo della bambina ansiosa-invischiata), ricerca una indipendenza ed una autonomia che però sono “false” perché non derivano dal senso di essere capace e di potersi staccare, ma arrivano dall’idea di fondo di essere sola al mondo e quindi di doversela cavare da sé per forza.