Willy, botte e morte. La deriva patologica dell’uso della violenza ha delle motivazioni cognitive: comprenderle può aiutare a scongiurare queste tragedie
La violenza da un punto di vista cognitivo è il prodotto degli schemi cognitivi di una persona mediato dalla teoria dell’elaborazione delle informazioni. Esther Calvete e Izaskun Orue qualche anno fa hanno pubblicato uno studio dove spiegano in quali sono i presupposti cognitivi del comportamento violento.
Schemi cognitivi – F. Bartlett
Uno schema cognitivo è un modello di pensiero e comportamento che organizza le informazioni e le relazioni tra esse. Agisce a livello inconsapevole, quindi una volta interiorizzato richiede un lavoro complesso per essere modificato. Gli schemi cognitivi teorizzati da Frederic Bartlett hanno dimostrato che l’inconscio non è neutrale, ma dipende dal nostro vissuto emotivo.
In breve, ci sono persono per le quali la violenza rientra all’interno di un ventaglio di risposte comportamentali accettate. Queste persone possono metterla in atto senza filtri.
Nota bene. Praticare sport di lotta non significa accettare la violenza, fino a farla diventare uno schema automatico del nostro agire. Negli sport la direzione non è quella della trasgressione bensì quella del controllo. Quindi inutile demonizzare le palestre, i mostri sono altrove.
Teoria dell’elaborazione delle informazioni sociali (SIP) – K. A. Dodge
Questa teoria spiega il modo in cui agiamo nei contesti sociali. È stata utilizzata spesso nella storia della psicologia per spiegare i comportamenti violenti di bambini e adolscenti. Il processo che porta all’azione è suddiviso in 5 fasi:
- Analisi del contesto sociale: in questa fase provi a leggere la situazione, cosa fanno gli altri e quali intenzioni hanno
- Interpretazione: perché le altre persone si comportano così? Ti stanno provocando?
- Generare le possibili risposte comportamentali: in questa fase la persona cerca nel suo bagaglio esperienziale dei comportamenti per reagire alla situazione che sta vivendo
- Scegliere: vaglio i pro e i contro di attuare uno dei comportamenti immaginati
- Agire: attuo il comportamento scelto
Le persone che agiscono con violenza, nella seconda fase (interpretazione) attribuiscono intenzioni ostili agli altri. Attenzione! È irrilevante se il numero (5 contro 1) o la stazza (un ragazzino contro 5 energumeni) annullano ogni possibile pericolo: se attribuisco agli altri intenzioni ostili la probabilità che le fasi successive si concludano con l’attuazione di un comportamento violento cresce.
Schemi ed elaborazione delle informazioni
Gli schemi cognitivi agiscono a un livello più profondo rispetto alla teoria dell’elaborazione della informazioni. Ci sono persone per le quali la violenza non sarà mai una opzione. Queste persone, oltre a non comportarsi in modo violento, sottostimeranno la probabilità che gli altri possano essere violenti contro di loro.
Forse è proprio questo il caso di Willy. Quando è partito per difendere Federico, il suo amico, Willy non immaginava una risposta così violenta nei suoi confronti.
In poche parole, i violenti temono la violenza perché sono pronti a usarla e la paura della violenza aumenta la loro aggressività. Per i non violenti, il discorso è differente. Loro non immaginano nemmeno dove può arrivare la furia di chi usa la violenza, e per questo la sottovalutano.
Sottovalutare la violenza sprigionata da un branco a volte è fatale.
Il narcisismo dove tutto è dovuto
Nello studio di Calvete e Orue si dice anche che una personalità narcisista è più incline a mettere in atto comportamenti violenti.
Gli schemi cognitivi del narcisista prevedono la convinzione che tutto gli sia dovuto. Gli altri sono svuotati della loro importanza e declassati a oggetti da utilizzare per il proprio tornaconto. Il link tra narcisismo e aggressività era stato già ipotizzato da Baumeister nel 1996: “Quando le persone con una eccessiva opinione di sé vengono messi in discussione dagli altri, diventano aggressivi e in alcuni casi violenti”.
La violenza sarebbe frutto dell’arroganza di credere di essere migliore degli altri. Gli altri sono piccoli, insignificanti, niente rispetto a te. Questo tipo di ragionamento malato può uccidere. Oggi l’ha fatto con le botte e la vittima è il povero Willy. Altre volte lo fa con la violenza psicologica, massacrando la stabilità mentale di chi entra nell’orbita di questo delirio.
Pensare di essere migliori degli altri e di poter trattare gli altri come si crede, per contrappasso è sinonimo di debolezza: è solo un modo per sfuggire al confronto. Come la volpe che non potendo arrivare all’uva dice che non la vuole perché è acerba. Così il narcisista rifiuta lo scontro alla pari perché potrebbe perdere.
Sentirsi come gli altri, lavorare e vivere con loro restando al loro stesso livello è, invece, molto complicato. Ci vuole un’autostima sana, pazienza e il coraggio di scegliere rischiando.
La forza che ci vuole per tirare un pugno è niente se paragonata a quella che serve per cercare di impedirlo.
Bibliografia
E. Calvete & I. Orue. Cognitive Schemas and Aggressive Behavior in Adolescents: The Mediating Role of Social Information Processing (2010)