MOBBING: QUANDO IL LAVORO FA MALE

Di lavoro non si muore solo, ma si soffre anche e non solo fisicamente. Le morti bianche purtroppo sono sempre più presenti tra le notizie di cronaca quotidiana, ma ciò di cui meno si sente parlare purtroppo è la diffusione di forme di patologia correlate all’ambito lavorativo. Fenomeni di sofferenza psichica spesso legati a forme di persecuzione, maltrattamento, intimidazioni, o in altri casi rappresentate da subdoli comportamenti da parte dei colleghi o di chi è gerarchicamente superiore tesi a minare ed a destabilizzare la serenità di chi li subisce in ambito lavorativo. Che si tratti di un sovraccarico o un sotto carico di lavoro esso può anche rappresentare una strategia aziendale finalizzata al licenziamento.

Ciò di cui stiamo parlando ha una definizione chiara: Mobbing, “una forma di terrore psicologico esercitato sul posto di lavoro da uno o più individui su un altro con lo scopo di espellerlo dal proprio posto di lavoro” (Ege, 1986) oppure: “una forma di terrore psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico, da parte di una o più persone, nei confronti di un altro individuo il quale viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie. Questa forma di maltrattamento determina notevoli sofferenze mentali e fisiche”. (Leymann, 1980).

L’intenzione di chi attua il mobbing è sicuramente quella di creare terrore psicologico finalizzato all’allontanamento dal posto di lavoro. Ancora oggi spesso i fenomeni di mobbing rappresentano qualcosa di occulto che non sempre viene denunciato, soprattutto quello perpetrato ai danni delle donne. Gli sportelli antimobbing rappresentano oggi un insostituibile punto di riferimento per chi subisce violenze su luogo di lavoro. Le vittime infatti arrivano spaventate, incerte rispetto alle capacità del loro interlocutore di offrire un reale supporto psicologico e legale.
I rischi presi in considerazione per i lavoratori non sono più solo legati ad aspetti di natura infortunistica rispetto alla mansione svolta ma comprendono anche quelli organizzativi e psico-sociali; il lavoratore viene oggi considerato nella sua complessità bio-psico-sociale e pertanto vengono riconosciuti anche fattori di rischio ulteriori e cioè legati allo stress psicologico ed ai conflitti relazionali.

Quando parliamo di mobbing non ci riferiamo ad una malattia, ma ad una condizione disfunzionale in ambito lavorativo che può comportare effetti negativi sulla salute di chi ne è coinvolto. Un forte senso di ansia e stress psicologico caratterizzano questi soggetti; a ciò si aggiunge una sintomatologia fisica molto variegata, fatta di cefalea, vertigini, dolori muscolari e malattie della pelle a dimostrazione che la componente psicosomatica è molto forte. La frustrazione che nasce dall’attribuzione di questo malessere all’attività lavorativa fa il resto poiché si vede la propria fonte di sostentamento come qualcosa di negativo da cui allontanarsi ma in cui dover necessariamente rimanere. Inoltre denunciare lo stato delle cose porta estrema paura per l’ignoto verso cui si andrà.

I tempi per reagire sono molto spesso stretti perché maggiore è l’attesa nel richiedere un sostegno e più aumenterà la possibilità di sviluppare sintomi che portino all’isolamento sociale: bassa autostima, senso di apatia, depressione, voglia di isolarsi, disturbi del sonno. Un senso di rassegnazione e scetticismo non favorisce la richiesta di aiuto, soprattutto nelle donne che spesso hanno paura di non essere credute.

Tre sono le aree principali da tenere in considerazione quando si parla di mobbing:

  1. Relativamente ai carichi di lavoro, eventuali cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, demansionamento o sovramansionamento, abusi, molestie subite;
  2. Le relazioni interpersonali con i superiori, con i colleghi e collaboratori, il sistema di interazione interno, la gestione del personale;
  3. Molta importanza ha anche il clima organizzativo soprattutto rispetto all’impiego delle proprie competenze, valorizzazione dei risultati raggiunti, possibilità di crescita.

  4. Le persone sottoposte a mobbing presentano dei tratti caratteristici di sofferenza psichica di vario tipo; hanno la tendenza a chiudersi e a rimuginare sviluppando un senso di paura generalizzato e generico. Tutto ciò è causato dalle continue vessazioni ricevute da parte di colleghi e superiori, con conseguente impatto nella vita relazionale, nella dinamica familiare e nello status sociale.

La trasversalità dei ruoli è una delle caratteristiche: si va dal manager con alte cariche all’interno dell’azienda all’operaio semplice che per quella che per loro è un’oscura ragione vengono bersagliati dai colleghi o dai superiori. È legittimo quindi che essi cerchino una soluzione immediata alla sofferenza. Due sono a questo punto le scelte risolutive: le dimissioni o il percorso legato alla tutela legale. In entrambi i casi l’impatto su una persona già provata psicologicamente difficilmente sarà positivo.
I cambiamenti di sede, di reparto, di mansione impattano fortemente sull’organizzazione del lavoro, delle relazioni personali e sull’erogazione dei servizi, partendo dalla nascita di conflitti tra obiettivi organizzativi e bisogni individuali.

Vengono rilevate, approfondendo le dinamiche che sottostanno alle esperienze di mobbing, tutta una serie di precondizioni che portano alla nascita del fenomeno come: una leadership inadeguata, autoritaria, poco interessata, pressioni di ogni genere circa il lavoro, così come l’elevato carico di lavoro, oppure conflitti ed ambiguità di ruoli. L’inadeguatezza dei superiori è una costante molto presente che diventa lesiva per i lavoratori.

Un’altra faccia del mobbing è la sua utilità per ridimensionare la forza lavoro; infatti spesso a seguito di fusioni, privatizzazioni o altre necessità organizzative si sceglie la persona o le persone da vessare fino a portarle alle dimissioni. Ciò rappresenta qualcosa di ancora più dannoso per la psiche del mobilizzato la cui attività lavorativa viene messa in discussione senza che lui realmente ne abbia colpa, ma gli si fa credere che sia lui la causa di un comportamento inaccettabile da parte di colleghi e superiori.
Nel caso di soggetti mobilizzati le comunicazioni che ricevono sono ambigue spesso contraddittorie generando nel lavoratore paura o vergogna di esprimere la mancata comprensione, con conseguente aumento delle possibilità di sbagliare e quindi aumento anche dell’ansia e della tensione. Le relazioni con superiori e colleghi diventano difficili, conflittuali solo per mobilizzati, mentre per gli altri restano normali, anzi proficue portando a conflitti che spesso non vengono risolti ed i conflitti a lungo irrisolti nei contesti organizzativi possono sfociare in mobbing ed altre situazioni poco gestibili.
Sono frequenti anche azioni di mobbing nei confronti di dipendenti che non corrispondono alle attese dell’azienda (lunghe assenze per congedi parentali, malattie, contestazioni e ribellioni agli ordini, portatori di handicap, ecc.), l’azienda così diventa il mobber affinché il dipendente si dimetta e vada via; il tutto per completare la strategia aziendale.

Tuttavia il mobbing non nasce dal nulla, ne è slegato dal contesto. A ben vedere, se si analizzano le situazioni precedenti a quelle di mobbing vero e proprio si possono ritrovare dei prodromi, dei segnali che se presi in tempo potrebbero rivelarsi fondamentali per prevenire lo scatenarsi di quella che Ege (Ege, 2001) chiama “guerra sul lavoro”. L’origine del mobbing secondo molti autori va ricercata nell’inadeguatezza della classe manageriale di gestire i conflitti. Anche se negli anni ‘30 c’era la convinzione che il conflitto in azienda dovesse essere represso, col passare degli anni si è arrivati alla conclusione che esso possa essere positivo laddove non miri all’eliminazione dell’altro. La non completa adesione alle opinioni degli altri è indice, in taluni casi, di creatività e se adeguatamente stimolata essa può favorire la crescita dell’azienda; tuttavia il conflitto che mina la produttività agisce sul morale dei lavoratori, favorisce i conflitti ed è deleterio per l’azienda.

L’intervento delle aziende sulla gestione dei conflitti è importante perché si tratta di potenziali focolai di rivolte, scioperi e sabotaggi. Essi si possono sviluppare in diverse situazioni: insicurezza sul posto di lavoro, mancanza di informazioni, situazioni contrattuali non accettabili, richieste eccessive, ecc. Nelle aziende in cui c’è uno o più mobilizzati è facile trovare un clima organizzativo ed aziendale cattivo, caratterizzato da criticità: di vendita, produzione, difficoltà economiche, ecc.

Il mobbing rappresenta ad oggi un tipo di violenza psicologica. Non sempre è facile agire sulla struttura organizzativa dell’azienda tanto da modificare certe dinamiche. Inoltre data la complessità del fenomeno non è possibile applicare una soluzione generale che possa andar bene a tutti; risolvere il conflitto oltretutto sarebbe troppo arduo. La soluzione ideale sarebbe quella di lavorare affinché le dinamiche di mobbing non avvengano, quindi agire sul sistema alle prime avvisaglie secondo cui si sta andando verso processi di mobbing. Creare all’interno dell’azienda una cultura che faciliti le interazioni positive tra i colleghi significa intervenire a livello dirigenziale sulla politica e sull’atteggiamento direttivo; avere una visione più chiara del conflitto, saperlo gestire può portare grandi vantaggi in azienda, sia a livello economico che relazionale.

Infatti, l’idea è che il punto di partenza del mobbing è proprio una cattiva organizzazione dell’azienda, un deterioramento dell’atmosfera lavorativa con conseguente diminuzione dell’efficienza e del rendimento del gruppo di lavoro e spesso si verifica un aumento di costi dovuti all’assenteismo.
La linea da seguire risulta quindi quella della prevenzione dei rischi psico-sociali; intervenire cioè con misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo all’interno delle aziende.

Per approfondire:
I. Petracca, M. Vudetta, P. Renzi, Il mobbing lavorativo in Italia, in Psicologia Contemporanea, Giunti, Gen-Feb. 2008, n.205, pp. 6-13

© Dott. Pasquale Saviano
Psicologo – Psicoterapeuta