La storia di un gioco di psicologia (La tavola dei desideri), il racconto su come è nato che esemplifica il gioco stesso, più una forse non necessaria premessa.
Alcune volte, ma avviene solo raramente, le persone si incontrano ed entrano in una forma di intimità che ha qualcosa di magico. È come se fossero personaggi che si incontrano in una storia e quelle fossero le pagine in cui la loro storia è raccontata. A me è successo ieri, facendo un gioco di cui vi parlerò, provando a raccontarvi un piccolo pezzo di quella storia, il mio. Ma prima devo fare una (forse non necessaria) premessa su di me.
UNA (FORSE NON NECESSARIA) PREMESSA SU DI ME
Sono uno psicoterapeuta. Da circa dieci anni, viaggio tra le città. Lo faccio per vedere le persone che aiuto. Vado a Milano, dove mi sono laureato, vedo i pazienti e torno a Roma, dove vivo e vedo pazienti. Poi vado a Crotone, dove sono nato, e vedo pazienti. Magari faccio una capatina qui e lì per insegnare in Università o fare qualche intervento di formazione e consulenza aziendale. Cose così. Faccio questa vita da circa dieci anni. Su e giù, dritta e manca. Negli anni in cui mi sono perfezionato in psicoterapia ad Arezzo ho vissuto e lavorato principalmente a Madrid, a Milano, a Roma e a Crotone. Tutto questo per dire che la mia vita è stata un po’ un casino. Mi sa che dal riassunto si desume. Adesso è tutto cambiato. Con il Covid ho iniziato a vedere i pazienti in videochiamata. È una cosa diversa. A voler fare confronti con la terapia in presenza si può dire questo: qualcosa toglie e qualcosa da. Dopo dieci anni di viaggi continui e sacrifici fatti volentieri per nutrire la mia passione per la psicoterapia, non serve più che io viaggi. Non serve che sia qui o che sia lì. Posso essere ovunque. Non devo più passare fino a trenta estenuanti ore a settimana su bus, treni e aerei. Non devo perdere il treno per tornare a casa per aiutare un paziente in più. Ora, non so voi, ma per quel riguarda la mia piccola esistenza, questa è una rivoluzione copernicana. Self-warning: sto parlando troppo di me e non vorrei annoiarvi – né annoiare me stesso, perché la mia storia la conosco già e se la ho qui riassunta è per farvi capire quanto grande sia per uno come me una conquista che altrimenti sarebbe apparsa piccola. Perché quando uno viaggia così tanto per lavoro, e vede pazienti il sabato e la domenica, la semplice idea di viaggiare per piacere diventa semplicemente impossibile. E invece adesso sono salito su un veicolo che mi ha portato da Roma ad una città che, come i protagonisti di questa storia, resterà segreta. Sono venuto qui per stare un po’ con un amico. La prima volta che gli ho promesso che sarei andato a trovarlo è stato tanti anni fa. Negli anni abbiamo spesso rivangato questa promessa, rimasta però non mantenuta. Fino ad oggi. Perché il Covid ha cambiato anche questo.
IL GIOCO DELLA TAVOLA DEI DESIDERI
Finalmente viaggio per andare a trovare questo amico e mantenere un’antica promessa.
Mi mostra la città, facciamo questo e quello e si fa sera. Andiamo a mangiare una pizza con alcuni suoi amici cari.
E siamo qui seduti, in un postaccio che è tanto brutto tanto bello, ma la pizza è buona. Vicino c’è un fiume e si sentono i motori diesel delle barche.
C’è una tv accesa e partono i commenti. Io penso ad altro. Mi viene in mente un gioco, un gioco che mi piacerebbe fare. Questa gente sembra molto interessante, penso, e allora mi lancio e lo propongo.
Il gioco si divide in due parti ed è questo.
Prima parte. Ognuno deve pensare a qualcosa che vorrebbe avere, acquisire, guadagnare, raggiungere o conquistare nella sua vita. Può essere qualcosa di materiale, come comprare un aereo (il mio amico è un pilota), oppure immateriale, come avere più fiducia in se stessi o imparare a pilotarlo, l’aereo. Mentre propongo il gioco sottolineo che non importa che le cose siano materiali o immateriali, ciò che conta è che siano percepite come importanti. Dopotutto, dico, la vecchia distinzione tra cose materiali – che avrebbero poco valore – e cose immateriali – che ne avrebbero molto – è sciocca. Una cosa per me è importante se è importante per me. Conta poco che sia di ferro o d’oro o di sogni, quel che conta è che conti qualcosa per me. Insomma, mettere qualcosa sul tavolo. Questa è la prima parte del gioco.
Seconda parte. Adesso bisogna pensare a qualcosa che vorremmo togliere dalla nostra vita. Liberarci da una proprietà che è diventata un peso da gestire o da ricordare. Liberarci del nostro scomodo orgoglio. Fare spazio, liberarci. Togliere qualcosa dal tavolo, insomma. E questa è la seconda parte.
UNO
Il primo a parlare è il più grande. Si assicura di poter esprimere qualsiasi desiderio, possibile o impossibile che sia. Confermo. È un uomo che appare semplice ma che trasuda eleganza. Che poi la vera eleganza è quella semplice – no? – ma che è tanto semplice che non si può nascondere. Traspira.
Ci pensa. Ci pensa davvero. Apre il suo cuore, poi la sua bocca e da la risposta, che è questa: vorrei non compiere errori.
Vorrei non compiere errori. Riflettendoci, capiamo che il desiderio di non sbagliare equivarrebbe all’onniscienza e alla preveggenza, cioè il sapere ogni cosa prima di ogni cosa.
Eppure questo desiderio impossibile mi parla dell’uomo che ho di fronte. Un uomo di una famiglia nobile, con grandi proprietà, che sente il peso della responsabilità, che mescola nel suo bicchiere il senso del dovere con il senso di colpa e beve e ribeve sorsi della paura di sbagliare.
Penso a una frase che ho detto qualche giorno fa a un paziente, l’ho annotata su un foglietto che adesso sarà da qualche parte e che forse non ritroverò, ma la ricordo ancora: Un uomo potrà pur sempre dire: so che è sbagliato ma è ciò che voglio.
DUE
Poi parla la ragazza. Si, c’era anche una ragazza seduta al tavolo dei desideri. Si è trasferita in città da poco, ha un nuovo lavoro. Ci pensa, apre il suo cuore, poi la sua bocca, e dice: vorrei capire cosa voglio. Il suo non è un gioco di parole, una furbata per cavarsi fuori dal gioco. Si vede che è sincera. La sua risposta ha un grande eco dentro di me, io la ascolto senza comprendere ancora la mia perché ho inventato il gioco ma non ho ancora giocato. Intanto penso: ma cos’è che voglio davvero? E cosa vuol dire “volere davvero” qualcosa? Forse volere qualcosa davvero è volere qualcosa per sempre. Ma nulla è per sempre, nemmeno ciò che vogliamo veramente. Nemmeno ciò che siamo. Siamo il nostro continuo inseguirci. È per questo che veniamo male nelle foto. Adesso ho un altro problema, perché dovrei descrivervi la donna ma non so come farlo. Facciamo che proverò a cavarmela dicendo che è una donna e forse anche per questo non riuscirei a descriverla in poche righe. E vado avanti.
TRE
Prende la parola la terza persona, che poi è il mio amico. Di lui posso parlarvi meglio. Sa pilotare le moto e i prototipi delle auto, sa pilotare gli aerei e ultimamente parla con i cavalli. È un eterno adolescente, con quella scintilla desiderante che illumina il suo cammino presente con sogni sul futuro. Ma il futuro è sempre futuro e non può essere mai davvero raggiunto. Così lui insegue un sogno e poi un altro, si muove sempre ma resta fermo e resta fermo muovendosi sempre. In genere le persone hanno un lato in ombra e uno in luce, come le montagne, ma lui è come un albero che filtra la luce e la luce e l’ombra sono vicine e con il vento si muovono e trasformano. Lui è quella luce e quell’ombra e il vento insieme. Le persone perdono quella scintilla diventando adulte, ma lui no. È una cosa bellissima, ma credo che faccia sentire soli, e che ci sia tanta sofferenza in questo tavolo tra le nostre pizze. Ma non esiste un tavolo dove non vi sia sofferenza, solo che in genere le persone la tengono sotto la tovaglia, e se prova a uscire la mettono giù in gola, e intanto parlano di telefoni e televisione. Ma noi no. Questa sera siamo esseri umani che parlano tra esseri umani del loro essere esseri umani.
Qual è – vi starete chiedendo – il suo desiderio?
“Vorrei capire – dice – quale è il mio vero talento”.
Può sembrare una cosa piccola, questa, ma è un dramma che conosco, e so che è invece talmente grande che le persone ci si perdono dentro. Il vero talento: la strada, il cammino.
QUATTRO
E a questo punto tocca a me. Mi rendo che non so ancora cosa dirò, ma apro il mio cuore e le mie orecchie sentono queste parole uscire dalla mia bocca: “vorrei liberarmi delle città”.
Per essere uno che scrive non mi esprimo tanto bene, ma la premessa a questo racconto permette di comprendere il senso delle mie parole. Per la prima volta dopo dieci anni di sacrifici compiuti per nutrire la mia passione per la psicologia, dieci anni di nottatacce in bus e viaggi estenuanti per onorare il nobile mestiere dello psicoterapeuta che tanto amo, per la prima volta sono libero da ogni vincolo fisico. Posso andare a città del capo, città del messico, a okinawa, illinois, timbuktu, mumbai, berlino, giacarta, su una montagna dell’umbria, su una costa inglese, in una valle in cina, in un monastero in spagna, posso andare a torino, a new york, a panay, mosca, helsingor, cipro, capri, calcutta, riad, posso andare in sila, a belo horizonte, a kanpur posso andare dove voglio, su un portico deserto, in un appartamento di periferia, in una stanza con vista lontana da tutto o vicino a qualcosa, posso andare a rabat, ad hargeisa, a cape town, a fort hope a trinidad, ma questa lista non serve proprio a niente perché posso andare dove voglio quindi chiudiamola qui. Il punto è questo. Il mondo del covid mi ha liberato dai vincoli fisici e sento di essere come l’anima di uno gnostico che si libera finalmente del suo corpo. È il viaggio in un’altra dimensione. Non voglio sprecare questa opportunità. Ho sempre pensato a questo come il più grande effetto collaterale del mio lavoro, ma che ne valeva la pena. Avevo fatto i miei conti e non mi importava perché amo il mio lavoro. E adesso quel limite non c’è più. È come il cibo perfetto, il medicamento ideale. Non hai mai avuto paura della libertà che ti eccita come una moto veloce? Ma adesso corro di nuovo il rischio di parlare troppo di me – è la legge della prospettiva: appare più grande ciò che è più vicino.
CINQUE
C’è ancora una persona al tavolo. L’ultimo a parlare. È un ragazzo un po’ irrisolto. Studente fuori corso. È pieno di energia. È il più simpatico ed istrionico. Ma conosco come funziona la faccenda, e da tutto quel mettersi al centro sento che vorrebbe essere più compreso, o almeno sentirsi meno incompreso. Aveva già preso la parola prima e aveva dichiarato con chiarezza di volere una schiena nuova, poi però si era zittito, come se si fosse messo tutto ad un tratto a pensare qualcosa, ad ascoltare qualcosa, si era messo a parlarsi. E poi aveva ripreso la parola. La parola, questa cosa che possiamo anche prendere, ma che non afferiamo mai, e che invece ci spinge come un vento. E dove ci spinge? Ah, questo non so dirlo. Forse verso un ricordo e un mistero, quel ricordo e mistero di cui siamo il frammento, ma un frammento vivo, che ancora taglia e scintilla. Un frammento che reca tutto in se stesso. E quando il suo cuore ha parlato, questo è quello che ha detto: “Vorrei liberarmi dal confronto con gli altri, dal giudizio e dalla competizione”.
Penso: se solo ognuno di noi costruisse il suo cammino rinunciando alla tentazione di guardare gli altri – ma non tanto per allontanare le percezioni negative, ma per scoprire nuove strade. In certi cammini non si può essere più bravi degli altri. La libertà è uno di quei cammini lì, un cammino che non si può affrontare cercando di essere più bravi degli altri, ma che richiede – per essere pensato e intrapreso – di essere se stessi. Infine ecco – penso e comprendo – cosa vuol dire per me liberarmi dal giudizio degli altri: essere se stessi.
Uno, due, tre quattro e cinque. Così si chiude il primo di giro del tavolo dei desideri, e tutti ci guardiamo negli occhi come se fossero occhi nuovi.
Ciò che più mi piace delle risposte che ho sentito e che le ho sentite dentro. Hanno un valore universale. Eppure si legano perfettamente al profilo e alla storia umana di ognuno degli esseri umani che si sono trovati uniti in una certa città vicino a un certo fiume intorno a un certo tavolo di fronte ad una semplice pizza, una sera qualsiasi della loro esistenza. È una cosa che non si vede spesso, perché gli esseri umani si incrociano, a volte si accompagnano, ma raramente si incontrano, raramente parlano – persino con loro stessi. Forse è un gioco che dovremmo giocare più spesso.
Ed ho imparato una cosa. Di fronte al genio della lampada del nostro cuore e le infinite possibilità della nostra coscienza, smettiamo di desiderare una nuova acquisizione aziendale, un nuovo aereo, e persino di non avere più male alla schiena. Vogliamo tutt’altro. In fondo, in qualche modo, vogliamo ciò di cui abbiamo più fame ma di una fame che non si può saziare. Vogliamo essere esseri liberi.
Ci siamo alzati, siamo usciti e abbiamo camminato, e abbiamo camminato e continuato a camminare, fino a che il mare non ci ha impedito di proseguire, ma ci ha permesso di osservare, di sognare quello che prima forse non avremmo compreso, e che in fondo non capiamo nemmeno adesso.
C’erano dei frangiflutti lì di fianco, e su uno di essi un nome: SOLDAGLIOLAND. Nemmeno google sa cosa significhi. Forse è dove siamo adesso.
E il secondo giro?
Quello lo facciamo un’altra volta.
Da un luogo imprecisato nel tempo e nello spazio, chiamato Soldaglioland
Francesco Zurlo