Gli aspetti psicologici del programma di addestramento militare S.E.R.E (Survival, Evasion, Resistance and Escape).

Con il termine “S.E.R.E” (Survival, Evasion, Resistance and Escape) si indicano quell’insieme di conoscenze teoriche e pratiche di addestramento militare con le quali si apprendono tutte quelle tecniche, tattiche, piani operativi, precauzioni e metodi di resilienza, che in situazione di avversità sono fondamentali per la sopravvivenza del personale militare (ma non solo), qualora sia costretto a lottare con condizioni meteorologiche avverse, bisogni primari,  stati di prigionia, tecniche di interrogatorio, fuga dal territorio nemico e tante altre situazioni a limite della sopportazione umana.

“Whether it’s in the desert, the arctic, at sea, in the jungle or as a prisoner of war, Airmen are prepared for any situation. And it’s the Survival, Evasion, Resistance and Escape (SERE) specialists who train them. These elite instructors are experts on how to survive in the most remote and hostile environments on the planet. And it’s up to them to make sure that when a mission doesn’t go as planned, the Airmen involved are ready for anything. And we mean anything”[1].

Nato per istruire tatticamente i piloti militari delle forze armate qualora dovessero trovarsi in territorio nemico in caso di malfunzionamenti aerei o attacchi da parte dell’avversario, lo stesso oggi è diventato la base per addestrare non solo le forze speciali, ma in maniera proporzionata alla propria mansione anche coloro che svolgono lavori particolari che possano esporli a dei rapimenti o interrogatori forzati (giornalisti di guerra, forze di intelligence, personale di ambasciata, imprenditori ed ecc..). Con le sue peculiarità formative, esso raccoglie tutta una serie di mirati training pratici non solo tesi all’allenamento fisico ma anche, e soprattutto, a quello psicologico. Difatti una tra le tante regole principali che si spiegano all’interno di questi percorsi formativi è proprio l’importanza delle risposte emotive: esse saranno perennemente degli ostacoli per la sopravvivenza se non controllate attraverso delle necessarie precauzioni e competenze. Come si vedrà in seguito, questi programmi sono fondamentali per poter sperimentare il proprio status personale in situazioni avverse dall’alto tasso di stress sia psicologico che fisico, nelle quali si potrà testare fino a che punto è possibile avere il controllo dell’ambiente o delle tecniche usate dall’aguzzino, quanto è importante la voglia di vivere, l’atteggiamento e la determinazione, per riuscire a ottenere dei vantaggi all’interno di una ostile contingenza.

“Il fine del corso è sopravvivere – spiega il tenente colonnello Carmine Orsini (curatore e coordinatore del S.E.R.E.) – importante è far capire a chi ti cattura che puoi essere più utile da vivo che da morto. I codici missione, invece, non vanno mai rivelati. Infatti, pur essendo stati cambiati dopo l’abbattimento dell’aeromobile, entrarne in possesso può comunque tornare utile all’avversario per capire in che modo una forza comunica coi suoi uomini sul territorio, studiandone la lunghezza, la disposizione, l’elencazione, etc.”[2]

Nella storia non sono mancati coraggiosi piloti militari che con entrambe le gambe spezzate hanno strisciato nel deserto quattro giorni di fila senza né mangiare né bere, oppure hanno dovuto usare i propri denti o unghie per riuscire a scavare nella roccia, o spinti dai propri valori religiosi, morali o patriottici sono riusciti ad affrontare la tortura sennonché la morte senza rilasciare nessun tipo di informazione. Purtroppo situazioni estreme possono accadere senza previsione, chi lavora in certi ambiti ne è consapevole, e non sempre, purtroppo, l’esito è positivo. Nonostante esista l’importante Convenzione di Ginevra che tutela la vita e l’umanità della persona umana, sfortunatamente non sempre viene presa in considerazione soprattutto se, dall’altra parte, vi è un attore non statale come il terrorismo.

“I soldati scelti sono generalmente a conoscenza dei più importanti segreti militari, e quindi è facile immaginare con quale brama il nemico desideri catturarne uno. Parte dell’addestramento dei soldati speciali si concentra sulle tecniche per sfuggire alla cattura e alla detenzione. Inoltre, i soldati sono spesso dei veri e propri guerrieri indipendentemente dagli altri, e se il nemico dovesse provare a catturarli con la forza, dovrà aspettarsi di faticare molto per riuscire a conseguire il risultato sperato. Eppure, anche i soldati delle forze speciali e gli avieri vengono catturati, e devono resistere ai disagi, alla noia e agli orrori della detenzione. Ironicamente, è proprio il loro ruolo di soldati scelti che li mette in situazioni di estremo pericolo, perché vengono scelti per missioni da svolgere in pieno territorio nemico, lontano dalla rete di sicurezza e dalle squadre di appoggio. Inoltre, le loro missioni possono essere talmente segrete che, in alcuni casi, essi non verranno neppure ufficialmente riconosciuti; tale situazione pone troppe volte il soldato al di fuori dalla protezione delle direttive della convenzione di Ginevra.”[3]

Per questo motivo, più che mai, bisogna essere consapevoli (anche da parte del personale civile di un certo peso) di quelle che sono le migliori tecniche e strategie da utilizzare in caso di avversità, non solo dal punto di vista tecnico ma anche e soprattutto psicologico.

Si citano le parole utilizzate da Alberto Scarpitta nel suo articolo “Evasione, fuga e resistenza agli interrogatori: l’addestramento delle forze speciali”, per poter capire qual è lo stato d’animo che spesso viene vissuto dai militari di guerra che si trovano a subire la prigionia:

Nella cella di detenzione non vi è alcun pericolo reale, ma la stanchezza accumulata, l’impossibilità di vedere, l’ansia e la paura dell’ignoto stanno agendo nella psiche dei prigionieri. Ogni rumore sconosciuto, ogni variazione della situazione ambientale appena percepita, ogni novità che non si è in grado di valutare e padroneggiare razionalmente sono vissuti come una nuova minaccia di portata non valutabile, che produce una paura ingigantita dalla fantasia. Il perdurare di questa situazione di insicurezza genera l’ansia, che ostacola la corretta capacità di giudizio”[4].

Iniziando dal principio, compresa la situazione ostica nella quale ci si può trovare, è utile sostenere che gli aspetti psicologici con i quali bisogna confrontarsi e lottare in territorio straniero, sia nel caso si tentasse la fuga o si fosse prigionieri, sono così tanti da richiedere almeno due elementi cardine per tentare di rimanere in vita: un ferreo istinto di sopravvivenza e un forte controllo delle proprie reazioni emotive qualunque esse siano. Per quanto riguarda il primo, esso è fondamentale per vincere quelle sfide a cui mente e corpo saranno sottoposti giorno dopo giorno, ora dopo ora, tra la vita e la morte.  Tutto ciò sarà importante perché “un’osservazione fatta ripetutamente è che laddove le condizioni sono estremamente dure e non viene lasciata nessuna speranza di sopravvivenza si assiste ad una resa psicologica di questi soggetti che smettono di essere collaborativi, passano tutto il tempo sdraiati assumendo la posizione fetale (tendono a ripiegarsi e rinchiudersi in se stessi piegando le gambe, incurvando il tronco e abbassando la testa), rifiutano il cibo e l’acqua anche se hanno fame e si lasciano morire”[5].

Dello stesso peso è il secondo elemento, in quanto l’autocontrollo emotivo sarà determinante per non farsi dominare dall’ambiente, dalle proprie debolezze o da individui a noi ostili. Specialmente in quelle situazioni dove si vorrebbe agire di istinto, lasciarsi andare o abbandonare ai propri sensi, l’autocontrollo assume il fondamentale compito di guida: più la ragione sarà in grado di valutare diversi fattori, più aumenteranno le probabilità di fuga, di non farsi catturare o di non rilasciare informazioni di un certo tipo.  In altre parole, colui che si troverà in questa situazione dovrà essere in grado di rispondere in modo costruttivo: valutare la situazione e sviluppare un adeguato piano d’azione; altrimenti si rischia di cadere nei tranelli dell’ansia, della depressione e della paura. Nel caso si volesse prendere l’esempio di una fuga, bisogna rimanere lucidi e motivati per sapersi muovere dall’area centrale velocemente, non lasciare delle tracce che potrebbero agevolare il lavoro di ricerca da parte del nemico, sapersi anche nascondere in dei rifugi rimanendo fermi per tante ore, con lo stomaco vuoto, con i muscoli doloranti, in uno stato a volte anche di ipotermia, per riuscire infine a controllare anche quelli che sono gli ostacoli interiori come il sopravvento del panico, la disperazione e la paura. Considerato il fatto che il nemico si troverà sempre in vantaggio, rispetto a quelle variabili che sono le conoscenze del posto, i beni di prima necessità, i vestiti, gli strumenti tecnologici e le armi; bisogna mettere in atto delle accortezze che possono complicare quello che è il suo lavoro di ricerca (tattiche di elusione, camuffamento e occultamento) come le seguenti:

  • Camminare sui propri passi per cambiare direzione e ingannare il nemico;
  • Depistare la fazione avversaria calpestando un tratto di vegetazione non utile o creando dei finti rifugi;
  • Cercare delle aree dalla folta vegetazione per potersi mimetizzare meglio;
  • Camminare, qualora fossero presenti, su dei canali d’acqua per due ragioni: posizionarsi a un livello inferiore rispetto a quella che è la linea del terreno e nascondere le proprie tracce;
  • Prediligere i suoli duri per evitare di lasciare il proprio calco;
  • Decidere di riposarsi in aree naturalmente adatte a occultare la propria persona;
  • Non prendere mai le strade principali, più brevi e più facili da percorrere;
  • Evitare di utilizzare delle fonti luminose durante la notte;
  • Giocare con le ombre per potersi mimetizzare meglio;
  • Sporcarsi il più possibile, con fango o ciò che offre la natura, per limitare le possibilità di attirare maggiormente l’attenzione;
  • Non dimenticare di guardare anche in alto: zone con una folta vegetazione e alberi sono buoni anche contro eventuali droni o aerei.
  • Qualora si fosse muniti di GPS, constatare se nella propria posizione è attivo il segnale;
  • Evitare di lasciare i propri indumenti durante il tragitto poiché potrebbero servire ai cani per poterne seguire le tracce;
  • Soprattutto nelle aree in cui non è presente molta vegetazione, bisogna camminare in linea con quello che è il suolo (passo da giaguaro).

Ogni errore commesso dal fuggitivo sarà un vantaggio per il nemico. Molte volte si viene catturati proprio perché si preferiscono strade principali, brevi, possibilmente senza una vegetazione attorno che possa proteggere la nostra visibilità. In questo senso mettersi nei panni del proprio inseguitore può essere utile a riflettere ancora meglio sulle scelte da fare. Per esempio, nel caso di alcuni inseguimenti non sono mancate delle situazioni nelle quali proprio lo stesso nemico abbia preferito aspettare la “preda” in zone con poca vegetazione per individuarlo e catturarlo. In generale quindi, non riuscire a rimanere lucidi in molti casi significherebbe compiere dei gesti che potrebbero portare, in questo caso, alla cattura o alla morte.  Non per niente, ciò che si cerca di far apprendere ai partecipanti, durante i corsi di preparazione S.E.R.E, è proprio lo spirito di adattamento ovvero quell’insieme di conoscenze e comportamenti adeguati, rispetto a quelli che sono gli obiettivi da raggiungere, tenuto conto dei vincoli e delle condizioni dettate dalla situazione. Nella fattispecie, le quattro attività da mettere in pratica per adattarsi in maniera efficace, da situazione in situazione, dovrebbero essere le seguenti:

  • Osservare: utilizzare quelli che sono i sensi e le proprie conoscenze per raccogliere più informazioni possibili;
  • Analizzare, interpretare: valutare con un occhio critico e analitico i dati raccolti dall’osservazione precedente;
  • Decidere: definire un piano operativo che sia adatto alla situazione, ponderato su una valutazione costi-benefici.
  • Eseguire e modificare: uno dei compiti più difficili da mettere in pratica per un prigioniero o soggetto in fuga è quello di prevedere e anticipare le mosse dell’altro. In certe situazioni di stress, sotto pressione da una serie abbastanza ampia di fattori, le azioni intraprese potrebbero non essere adatte alla situazione tanto da richiedere dei correttivi in corso d’opera.

Chi si trova nella circostanza di dover prendere una decisione piuttosto che un’altra può trovarsi nella condizione di dover sopportare anche i dolori provenienti da ferite, provocate da armi da fuoco o taglio, oppure sentirsi disidratato, affamato o stanco. Anche in questo caso la sopravvivenza dovrà prendere il sopravvento su tutto nonostante il corpo in quella situazione richiederà tutt’altro:

  • Concentrazione sul dolore e sui propri bisogni fisiologici;
  • Mancanza di iniziativa;
  • Autocontrollo limitato;
  • Apatia;
  • Incapacità di svolgere compiti fisici o spostamenti.

A proposito di quest’ultimo stato fisico, è importante in queste situazioni saper valutare quando è il momento di fermarsi per riposare. La fatica si accumula richiedendo, se protratta fino a lungo termine, dei tempi di ripresa più lunghi. In questo senso, oltre che riacquistare le forze attraverso il sonno, sono importanti le brevi pause per tante ragioni:

  • Per aumentare l’efficienza delle attività;
  • Si riduce l’accumulo di fatica e stress;
  • Migliora il morale e la motivazione personale;
  • Consente la persona di poter dare il massimo nei momenti più faticosi.

Bisogna evitare quello che è lo sfinimento totale anche nei momenti in cui si volesse muovere qualcosa di pesante oppure salire su un albero particolarmente insidioso; ogni azione deve essere realizzata con criterio, specialmente se l’individuo dovesse trovarsi ferito. In generale, con le giuste pause e in buone condizioni fisiche e mentali, ci si potrebbe privare del sonno per un massimo di cinque giorni senza subire conseguenze.  Un discorso a parte merita la questione dell’isolamento o della vera e propria prigionia in quanto prevalgono, più delle altre situazioni, il problema dell’isolamento, dell’autostima e della dipendenza. Per quanto riguarda il primo, tra gli stress più gravi che si possono subire in questa circostanza abbiamo il senso di impotenza, di solitudine e di abbandono fino ad arrivare alla disperazione. Questi verranno accentuati da coloro che condurranno gli interrogatori o le torture per poterne giovare in termini di resa  e di rilascio delle informazioni.  Anche in questo caso la comprensione della situazione, di quelli che sono gli obiettivi del nemico (se è stato per esempio richiesto il riscatto oppure se vuole ottenere delle informazioni in suo possesso) e di una ferrea volontà di resistere a tutti i costi, possono essere fondamentali per la propria sopravvivenza. Nel caso ci si dovesse trovare nella situazione di non poter più resistere per una serie di motivi, il rilascio di alcuni pezzi confusi di informazione potrebbe essere un buon modo per guadagnare tempo, aspettare l’arrivo dei soccorsi oppure elaborare un piano di fuga più efficace possibile. Correlato al fenomeno dell’isolamento, soprattutto qualora si dovesse vivere in prigionia o subire un piano programmato di torture, si possono verificare dei momenti in cui il prigioniero possa perdere la propria autostima. L’isolamento, la privazione del sonno, l’essere spogliati nudi, bombardati di musica assordante, costretti a stare in posizioni doloranti per tante ore, privati di acqua e di cibo, sono tutti modi per far abbassare quella che è l’autostima del soggetto e più in generale crollare le proprie linee difensive. In questa situazione, si possono creare dei sentimenti di dipendenza per il rapitore in quanto in grado non solo di determinare quella che è la nostra sopravvivenza, con acqua e cibo, ma anche il nostro bisogno di essere riconosciuti e capiti in quel momento. In altre parole egli proverà a sviluppare nell’ostaggio un forte senso di bisogno e fiducia verso se stesso mediate tutto ciò che possa essere utile a creare potere e controllo (offrendo beni di prima necessità, vestiti, contatti sociali e medicine). Giocando sul suo stato di regressione egli cercherà di renderlo sempre più vulnerabile a tutte quelle suggestioni che saranno utili ad ottenere i suoi obiettivi. In altre parole, ogni tecnica di condizionamento, sarà finalizzata a intensificare gli stati emozionali del prigioniero come la depressione, la paura, i sensi di colpa, la sfiducia, l’insicurezza e la dipendenza, al fine di recedere la sua maturità, personalità e i suoi sistemi difensivi, a uno stato quasi infantile. Lo scopo quasi sempre è lo stesso: togliere il soggetto la possibilità di confrontarsi con l’ambiente esterno e costringerlo a ripiegarsi su se stesso a un livello tale per cui esso sentirà l’esigenza di identificare il carceriere come una figura amica o paterna (Sindrome di Stoccolma). Spogliato del suo riconoscimento identitario, come la divisa, attraverso abiti più grandi e fastidiosi o lasciato totalmente nudo, si fa leva su qualunque cosa possa essere utile a non farlo adeguare a quella che è la routine quotidiana: la dieta, i cicli di sonno e altri aspetti fondamentali del soggetto, vengono continuamente cambiati per generare confusione e stordimento. A queste forme brusche non sono mancati elementi più sottili volti a proteggere la stessa qualità delle informazioni possedute dal prigioniero come l’elicitazione o il cosiddetto “bombardamento d’amore” tipico delle sette religiose.

Di fronte ad un così ben articolato piano, strutturato anche con particolari forme di interrogatorio che non rispettano la persona e la sua umanità (un esempio è l’interrogatorio protratto per moltissime ore in cella, con la possibilità di poter dormire 5-10 minuti, per poi riprendere senza sosta), solo un riconoscimento del suo piano e uno spirito critico forte possono ritardarne gli effetti.  Difatti, essere soggetti a queste forme di manipolazione, soprattutto in forma passiva, significherebbe diventare vulnerabili a quelli che sono gli intenti del manipolatore. Avere una buona fiducia in se stessi e delle proprie qualità, porre la situazione come una sfida da poter vincere e far uso dell’esperienza/addestramento fatto, può essere fondamentale per mantenere il controllo della situazione e delle proprie emozioni. Non per niente lo stesso codice di condotta militare può servire a mantenere vivo e forte l’istinto di sopravvivenza: “I prigionieri di guerra non saranno mai dimenticati”. In questo senso risulta quindi imprescindibile l’uso di quella capacità di guardarsi con distacco analitico, quasi come se si fosse una terza persona, di mantenere sempre viva la propria consapevolezza e di evitare, in maniera autoritaria, di modificare o nascondere quelli che sono i fatti reali circostanti a se stessi. Il grande potere di osservarci quando stiamo parlando e interagendo con la persona, di analizzare in maniera critica e lucida il nostro modo di comportarci, può aiutare più di qualunque altra cosa a preservare il più possibile il nostro tessuto identitario. A maggior ragione se ne vale della nostra vita:

“I miei muscoli erano doloranti e le picozze si ruppero. Io sentivo una musica oscura che martellava nella mia testa e un umore nero, suicida mi avvolgeva, eppure sentivo l’istinto di andare avanti. Se perdi il controllo, perdi”. (Mark Twight)

In conclusione, purtroppo chi si trova in questa situazione non ha scelto volontariamente di parteciparvi e non può sottrarsi dal lottare se vuole sopravvivere. Bisogna saper innanzitutto riconoscere la reale portata del problema, elaborare tra i tanti ostacoli fisici e mentali delle soluzioni alternative per poi valutare qual è il miglior piano per agire o reagire di fronte a tutte le difficoltà del caso. Il training S.E.R.E serve proprio a questo: preparare i propri partecipanti a ogni possibile forma di difficoltà.

 

 

Bibliografia

  • Alberto Scarpitta, “Evasione, fuga e resistenza agli interrogatori: l’addestramento delle forze speciali”, Analisidifesa, novembre 2019.
  • Chris Mcnab, “Tecniche di addestramento militari”,edizioni mediterranee, 2008.
  • https://www.airforce.com/careers/detail/survival-evasion-resistance-and-escape-sere
  • Marco Costa, “Psicologia militare”, Francoangeli, 2006.
  • Marco Petrelli, “Cosa fare se ti prendono: l’addestramento estremo dei soldati”, Insideover, novembre 2018.
  • Survival, Evasion, Resistance, Escape (SERE) operations, AF handbook 10-644, Department of the air force, 27 marzo 2017.

 

 

[1] https://www.airforce.com/careers/detail/survival-evasion-resistance-and-escape-sere

[2] Marco Petrelli, “Cosa fare se ti prendono: l’addestramento estremo dei soldati”, Insideover, novembre 2018.

[3] Chris Mcnab, “Tecniche di addestramento militari”,edizioni mediterranee, 2008.

[4] Alberto Scarpitta, “Evasione, fuga e resistenza agli interrogatori: l’addestramento delle forze speciali”, Analisidifesa, novembre 2019.

[5] Marco Costa, “Psicologia militare”, Francoangeli, 2006.