Quello che è il mantenimento di un segreto, la protezione di qualcosa di davvero importante, è un processo così complesso da poter essere comparato ad una vera e propria gabbia per la maggior parte degli esseri umani, composta da barriere che impediscono al custode di essere sé stesso con il mondo esterno. Egli può sentirsi appesantito da un fardello che difficilmente riesce a trattenere, una condizione psicologica per la quale si sente soffocato, ostacolando la naturale propensione di sentirsi in dovere di dire sempre tutto, soprattutto a chi gli vuole bene e gli sta vicino. Tutto ciò, seppur possa sembrare di primo acchito inspiegabile, capita per un semplice motivo: quella che è la riservatezza, la non condivisione di certe esperienze o dubbi, comporta un dispendio di energie che non tutti riescono a gestire. Difatti essa spesso induce sensi di colpa, ansia da prestazione nonché vergogna che, per le loro caratteristiche, vanno a minare l’essere umano e la sua integrità. Dopotutto, è come se ci si sentisse sporchi dentro: incide negativamente sulla propria individualità mettendo in discussione la percezione di chi realmente si è. Dal punto di vista psicologico, è stato dimostrato come tutto ciò alteri progressivamente il livello di cortisolo (l’ormone dello stress), generando tutta una serie di dolori fisici e psicologici di non poco conto. In quest’ottica è intuibile quanto sia forte l’esigenza di condividere qualcosa, soprattutto se molto importante, con qualcuno o qualcosa di esterno (si pensi al vecchio diario).
Quelli che sono i pensieri che si vogliono nascondere all’altro, sono in realtà per lo stesso “iper-accessibili” ossia raggiungibili costantemente da colui che li vuole proteggere. Essi richiedono in questo senso uno sforzo continuo che solo pochi sono in grado di gestire. In molti casi è come se si volesse irragionevolmente credere di bloccare quello che è il pensiero: impossibile è non immaginare qualcosa che costantemente ci preoccupa o ci riaffiori in mente. Difatti, risulta inutile dire a qualcuno per esempio di non pensare al colore rosso senza che ciò avvenga realmente, oppure di mantenere la calma durante un evento oggettivamente percepito come pericoloso. Il tutto perché quello che è l’istinto, quell’impulso congenito, immutabile e naturale, prende il sopravvento su qualunque altra cosa (inclusa la ragione). Non per niente spesso sono i gesti involontari, quelli che sfuggono dalla percezione dell’individuo, a tradire colui che custodiva il segreto. Di converso, non sono mancate occasioni per le quali quella che è stata la condivisione dello stesso fosse usata, dal suo presunto custode, come una sorta di “auto-vetrina”: modo per poter ottenere consensi o ammirazione dall’altro. Non per nulla, soprattutto oggi, all’interno di un mondo molto proteso all’esteriorità e alla condivisione, risulterebbe irragionevole non considerare il mantenimento di un segreto come una abilità o una virtù, cioè quell’intrinseca e peculiare capacità per la quale il portatore, attraverso un alleato self-control, riesce a destreggiarsi nei meandri della riservatezza valutandone, di volta in volta, l’importanza. In altre parole, nel duale rapporto tra il custodire e il violare, egli sarà abile a delineare una profonda linea di demarcazione tra ciò che deve apparire e ciò che deve rimanere nascosto ovvero, nel suddetto caso, dovrà saper controllare il giusto rapporto tra la condivisione e il riserbo. In questo delicato gioco, sicuramente un importante ruolo potrebbe svolgere la “dissimulazione”: quella non percepita bugia, da parte del soggetto, tesa a celare il suo pensiero e a salvaguardare l’integrità del suo patrimonio informativo.
In un’altra veste, quello che è il mantenimento di un segreto può essere visto oltre che una qualità anche come un mezzo di “conservazione di un ordine” ossia una protezione di uno status quo che non si vuole compromettere. Dopotutto, se solo si riflettesse sull’importanza di questo ci si accorgerebbe come il potere, in quanto tale, necessiti di persone che sappiano proteggere il patrimonio informativo del quale sono a conoscenza. Non per niente, lo stesso Claudio Magris nel suo libro “Segreti e no” scrive questa importante frase: “non c’è Stato che non abbia i suoi servizi segreti”. Difatti quella che è la protezione dell’informazione oggi risulta essere la prerogativa di ogni potenza nazionale tanto da rendere quello che è “il segreto di Stato” un asse portante della loro grandezza e esistenza. Nel caso specifico dell’Italia esso può essere inteso come una vera e propria garanzia e difesa, sul piano economico, scientifico, culturale, politico e militare, dell’integrità territoriale dello Stato e della tutela del suo ordinamento democratico. In aggiunta, bisognerebbe pensare a qualcosa di più pericoloso di un segreto svelato: la sua mutabilità. Violare un segreto, renderlo nudo da ogni forma di scudo, significherebbe anche “deformarlo” ossia immetterlo in un contesto diverso sotto forma di “percezioni proprie”. Di converso, solo nella sua forma più introspettiva e riservata, si può proteggere quello che è il suo reale valore.
In conclusione, in qualunque campo lo si veda, dal segreto professionale a quello più personale e intimo, non si può che considerare quella che è la virtù della riservatezza come un assioma fondamentale della persona umana e della società in cui si vive. In un mondo sovraccaricato di informazioni, solo una reale cultura del silenzio può renderlo immune dal virus dell’esteriorità, del pericolo e dell’apparenza.