Tina Anselmi e Franco Basaglia. Una politica, partigiana e democristiana, prima donna italiana ad aver ricoperto la carica di ministro; un medico psichiatra, definito come il padre della moderna concezione di salute mentale, per molti un visionario e un rivoluzionario. Cos’hanno in comune? Oltre ad essere originari della stessa regione (il Veneto), sono gli ispiratori di due leggi approvate nel 1978 che hanno cambiato il diritto alla salute nel nostro Paese.
Tina Anselmi è il ministro della Salute che ha posto la firma sulla legge che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale, un sistema universalistico grazie al quale, nonostante le difficoltà, la sanità italiana viene considerata fra le migliori al mondo e fra le più accessibili. Prima di allora l’assistenza sanitaria veniva garantita tramite l’adesione volontaria agli enti di mutuo-soccorso, una sorta di protezione assicurativa nella maggior parte dei casi legata alla condizione lavorativa.
Franco Basaglia invece è il padre nobile, nonostante non si sia mai riconosciuto nell’estensione finale della legge, della riforma che ha chiuso gli ospedali psichiatrici, tristemente chiamati manicomi. La legge di riferimento per le strutture dedicate al “contenimento” del disagio mentale, prima della riforma del 1978, risaliva ad inizio secolo. I manicomi erano luoghi in cui veniva confinato ciò che non rispondesse ai canoni di normalità secondo un principio di “pericolosità sociale”: alcolisti, persone con disabilità, omosessuali, persone in condizione di marginalità sociale, durante il fascismo addirittura dissidenti politici.
Esistono punti di contatto fra queste due leggi? Ha senso ricordarle e ricordarle assieme al di là della ricorrenza storica che ne accomuna l’anno di approvazione?
Sì e i motivi sono molteplici.
Innanzitutto nelle premesse della legge che istituisce il servizio sanitario nazionale emergono come determinanti della salute, di cui lo Stato deve farsi carico tramite il Servizio Sanitario Nazionale assieme alle altre istituzioni, la lotta agli squilibri territoriali e sociali, l’educazione della cittadinanza, la prevenzione dell’inquinamento e la tutela dell’ambiente: tutti fattori che vanno oltre al concetto di salute come assenza di patologia arrivando a considerare la promozione del benessere nella sua completezza.
In secondo luogo il territorio, inteso come tutto ciò che non si esaurisce nella cura ospedaliera, acquista un ruolo determinante nella promozione della salute: la dimensione sociale, le relazioni, la capacità della comunità di creare reti di sostegno sono parte integrante del percorso di cura della persona. Un principio ribadito con la chiusura di manicomi, per cui la marginalità non viene più nascosta o confinata, ma affrontata mediante il reinserimento.
Tuttavia il senso più profondo nel ricordare queste due leggi assieme sta nel fatto che entrambe esprimono principi non ancora pienamente sostanziati, ma non per questo il loro impianto dev’essere messo in dubbio.
Da una parte il sistema universalistico deve fare i conti con le risorse disponibili, ma rimane paradossalmente un sistema meno costoso per i cittadini e per lo stato rispetto a modelli diversi. Negli Usa la spesa sanitaria incide per il 17,8% sul Prodotto Interno Lordo, a fronte di un 8,9% per quanto riguarda il nostro Paese. Il nostro è quindi un modello migliorabile, ma non è detto che per migliorarlo si debba pensare a modelli privatistici o assicurativi, lavorando piuttosto sugli squilibri fra regioni e investendo su approcci di cura multidisciplinari.
Ragionamento simile possiamo fare sulla legge 180/1978 (“chiusura dei manicomi”). Oggi sentiamo politici e rappresentanti istituzionali proporre la riapertura degli ospedali psichiatrici utilizzando dati sbagliati per cui le persone affette da disturbi mentali sarebbero maggiormente pericolose, mentre al contrario sono più frequentemente a loro volta vittime di violenza. Il principio secondo cui il disagio o ciò che non riteniamo normale debba essere confinato e allontanato è un principio pericoloso, nel caso della salute mentale perché stigmatizza patologie subdole e culturalmente difficili da affrontare. Oggi, che una malattia come la depressione è destinata a diventare in pochi anno la prima causa di assenza dal posto di lavoro, la salute mentale deve entrare a pieno titolo fra le priorità sociali e sanitarie del nostro tempo.
La battaglia non è solo legislativa, politica o economica: è prima di tutto culturale. Non esiste diritto alla salute senza impegno per il benessere psicologico.