Sigmund Freud scrisse alla madre preoccupata: “L’omosessualità non è niente di cui vergognarsi” (1935)

Nel 1935, Sigmund Freud rispose alla lettera di una madre preoccupata per l’omosessualità del figlio. La madre aveva contattato Freud poiché era alla ricerca di un trattamento che “guarisse” il figlio dalla “malattia” dell’omosessualità. Un termine, quest’ultimo, che non era neanche riuscita a citare per iscritto una sola volta. Freud, padre della psicoanalisi diventato con il tempo una sorta di mito nell’immaginario comune, risponde alla donna tranquillizzandola e dandole un consiglio saggio, che si potrebbe riassumere così: se suo figlio è infelice, l’analisi lo aiuterà, ma se suo figlio è felice, non ha bisogno del mio aiuto. Per dirla ancora più in breve, non è l’omosessualità un disturbo che necessità di cure. Anche se….

9 aprile 1935

Cara Signora […….],

Colgo dalla sua lettera che suo figlio è un omosessuale. Sono molto colpito dal fatto che lei non fa cenno a questo termine nelle informazioni che dà su di lui.

Posso permettermi di domandarle perché lo evita?

L’omosessualità non è certamente un vantaggio, ma non è niente di cui vergognarsi, non è un vizio, non è un’umiliazione; non può essere classificata come una malattia; noi la consideriamo come una variazione della funzione sessuale, prodotta da un certo arresto dello sviluppo sessuale.

Molti individui estremamente rispettabili dei tempi antichi e moderni sono stati omosessuali, tra loro numerosi degli uomini più grandiosi (Platone, Michelangelo, Leonardo da Vinci, ecc…).

È una grande ingiustizia perseguitare l’omosessualità come un crimine – ed è anche una crudeltà.

Se non mi crede, legga i libri di Havelock Ellis.

Chiedendomi se posso aiutarla, lei intende dire, suppongo, se posso abolire l’omosessualità e fare in modo che la normale eterosessualità prenda il suo posto.

La risposta è che, in termini generali, non possiamo promettere di riuscirci. In un certo numero di casi abbiamo avuto successo nello sviluppare i germi rovinati delle tendenze eterosessuali, che sono presenti in ogni omosessuale, nella maggioranza dei casi questo non è più possibile.

È una questione di qualità ed età dell’individuo. Il risultato del trattamento non può essere previsto.

Quello che l’analisi può fare per suo figlio, funziona su una linea differente. Se egli è infelice, nevrotico, lacerato dai conflitti, inibito nella sua vita sociale, l’analisi può portargli armonia, pace mentale, piena efficienza, che egli rimanga un omosessuale o cambi. Se lei decide che egli debba fare analisi con me – non mi aspetto che lei lo faccia – egli deve venire a Vienna. Non ho intenzione di andare via da qui. Comunque, non trascuri di darmi la sua risposta.

Cordiali saluti con i migliori auguri,

SIGMUND FREUD

Analisi e conflitti teorici

Nel 1905 nei Tre saggi sulla teoria sessuale, Freud comincia a delineare la fenomenologia di quelle che oggi chiamiamo al plurale ‘le omosessualità’. La preferenza per una persona dello stesso sesso è ‘assoluta’, oppure ‘anfigena’ (oggi si dice: bisessuale); si può verificare in maniera ‘occasionale’, in condizioni quali l’assenza prolungata di un oggetto eterosessuale. Può essere presente fin dall’inizio e persistere per tutta la vita; oppure può comparire o ricomparire anche dopo lunghi matrimoni eterosessuali da cui sono nati dei figli. Alcuni omosessuali vivono la loro tendenza come qualcosa di ovvio e sostengono una parità di diritti con gli eterosessuali. Altri invece sono in conflitto con essa.

Come si forma l’orientamento sessuale nell’essere umano?

Oggi si parla di un intreccio variabile di ognuna delle componenti la triade bio-psico-sociale. Non è una novità. Già in Freud si trova sia una valorizzazione delle molte vicende psichiche che potrebbero interferire con lo sviluppo psicosessuale, sia il riconoscimento di fattori costituzionali. L’omosessualità può essere fatta risalire all’una o all’altra origine, o al comporsi di entrambe.

Nel Ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci (1910), esaminando dipinti e carteggi del grande artista, Freud ipotizza che l’omosessualità sia da collegare al vincolo erotico precoce con la madre. Tale amore troppo intenso è rimosso, ma non ammette di essere sostituito con quello per altre donne. Resta conservato nell’inconscio. Per Freud, un omosessuale di questo tipo si mette al posto della madre, si fonde con essa, e sceglie ragazzi simili a lui da amare come la madre ha amato lui.

In Osservazioni cliniche su un caso di paranoia descritto autobiograficamente (1910), Freud esamina la storia di una malattia psichica narrata in prima persona dal malato, il Presidente di Corte d’appello di Dresda. La linea di riflessione qui suggerita è che sia l’inaccettabilità della pulsione omosessuale passiva verso il padre ad essere il punto di avvio di un processo psicotico. In tal caso, non la presenza dell’omosessualità, ma il suo rifiuto, potrebbe portare ad una grave malattia mentale.

Altre possibili vie di esplorazione dell’omosessualità maschile per Freud: preferire partner dello stesso sesso porterebbe ad evitare la rivalità edipica con il padre, o con figure maschili potenti da cui si temano ritorsioni; oppure ad evitare impulsi di gelosia particolarmente intensi nei confronti di fratelli rivali per il possesso dell’amore materno. Dalla sublimazione delle pulsioni amorose ed aggressive nei confronti dei fratelli può nascere la predisposizione individuale ad occuparsi del sociale.

All’omosessualità femminile Freud dedicherà un solo saggio nel 1920, Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile. Pur avendo raggiunto l’interesse per l’uomo ed un tenero attaccamento per i bambini, una giovane di buona famiglia ‘cambia rotta’ quando il padre ha un altro figlio dalla madre, innamorandosi di una signora del bel mondo. Freud ipotizza che la giovane avrebbe voluto un figlio dal padre, ma è stata la madre, l’odiata rivale, ad ottenerlo. Pur non essendo questo l’unico esito possibile, nel suo caso la ragazza, sentendosi delusa e tradita, si identifica con il padre e aumenta l’amore nei confronti della madre per compensare il proprio odio. Non potendola avere come amante, cerca un sostituto cui legarsi al di fuori della famiglia. Diventando omosessuale ‘cede il passo’ alla madre nel rapporto con gli uomini, e così si riappacifica con lei.

Sull’omosessualità femminile, Helen Deutsch, importante allieva di Freud, aggiunge qualcosa in Adolescenza (1944), parlando dei possibili sviluppi dell’omosessualità in quest’epoca della vita, usando le teorizzazioni del maestro sulla bisessualità iniziale. Anche negli adolescenti che diventeranno eterosessuali c’è, per entrambi i sessi, la figura dell’’amico’ o dell’’amica’ del cuore, un doppio di sé che favorisce il distacco dai genitori verso le relazioni con i pari. Invece, nell’analisi di una paziente grave, Deutsch distingue un’omosessualità femminile esclusiva, attribuibile alla necessità di compensare il legame precoce con una figura materna sadica e fonte di sofferenza. Attraverso un’esperienza omosessuale che ricalca i modi di una relazione madre bambina sufficientemente soddisfacente, tale disagio può trovare una riparazione.

Freud nell’ L’io e l’Es (1922), affronta il complesso di Edipo  nella sua forma completa (l’amore per il genitore dello stesso sesso – Edipo negativo – l’amore per il genitore di sesso opposto – Edipo positivo) e nelle sue forme parziali. Quando la persona evolve dall’iniziale bisessualità verso l’eterosessualità, per l’influenza congiunta di fattori costituzionali e delle prime relazioni, la componente negativa dell’Edipo si attenua fino a diventare una traccia. Avviene l’opposto quando la persona si forma con un’identità prevalente di tipo omosessuale.

Nel parlare di omosessualità, è costante l’invito di Freud a prestare un’attenzione puntuale alla formazione del mondo interno delle singole persone, al considerarla una variante dello sviluppo e non una malattia (1935). Egli ritiene inoltre che non è possibile trasformare un omosessuale pienamente sviluppato in un eterosessuale (1920), e che la forma di aiuto che un analista può offrire a questo tipo di pazienti è aiutarli a raggiungere il grado maggiore di benessere psichico, che restino omosessuali o meno.

È pur vero che, in antitesi alla posizione freudiana, fino agli anni Ottanta del secolo scorso, predominava, soprattutto nella psicoanalisi americana e, in particolare, nei teorici della psicologia dell’Io, l’idea che nell’omosessuale ci fosse una sorta di deficit evolutivo, che lo rendesse, di fatto, meno adatto, rispetto ad un
eterosessuale, ad esercitare la funzione analitica. Di qui un conseguente divieto di accesso alla professione ed alla istituzione psicoanalitica. Una simile posizione si basava, principalmente, su un’ottica pulsionale, oggi superata. La depatologizzazione della omosessualità ha quindi implicato il riconoscimento che l’omosessuale, di per sé, è psicologicamente sano o malato nella stessa misura in cui lo può essere un eterosessuale, e quindi lo si deve considerare in diritto di poter aspirare ad una vita di coppia pienamente riconosciuta e garantita dalla legge, come finalmente è possibile anche nel nostro paese.