“L’ho fatto perché me lo hanno ordinato”: l’obbedienza all’autorità secondo Stanley Milgram

Sin dalla nascita siamo educati a rispettare ciò che le autorità ci dicono. Genitori, insegnanti, superiori e forze dell’ordine sono solo alcune delle figure con cui ci relazioniamo ogni giorno, e a cui ogni giorno diamo la nostra fiducia e la nostra obbedienza.

Ma cosa faremmo se una di queste persone ci ordinasse di fare qualcosa che va contro al nostro sistema di valori? Siamo pronti a capire in quali situazioni obbedire all’autorità equivale a danneggiare qualcuno?

L’ESPERIMENTO DI STANLEY MILGRAM

Nato a New York nel 1933 e formatosi in un primo momento in Scienze Politiche, nel 1954 viene accolto con riserva alla scuola di dottorato in psicologia ad Harvard dopo aver sostenuto alcuni esami integrativi. Pur non avendo mai frequentato un corso di psicologia prima di allora, Milgram è riuscito in poco tempo a diventare uno dei più importanti psicologi sociali dello scorso secolo.

Influenzato in questo periodo dai frequenti contatti con Solomon Asch ed i suoi studi sul conformismo, nel 1961 Milgram rimane particolarmente colpito dalle parole di Adolf Eichmann durante il processo per i crimini svolti nei lager nazisti durante la seconda guerra mondiale.

Il funzionario tedesco si difendeva infatti dalle accuse del giudice rispondendo che la complessa macchina di sterminio dei nemici del partito nazional-socialista era stata messa in atto esclusivamente per obbedire all’autorità dei propri superiori.

“Ero uno strumento nelle mani di forze superiori” afferma Eichmann durante il processo. E così Stanley Milgram si chiede: cosa siamo capaci di fare di fronte agli ordini delle autorità? Siamo veramente capaci di nuocere agli altri solo perché ci è stato ordinato?

SIAMO DAVVERO CAPACI DI ESSERE COSI’ MALVAGI?

Per rispondere a questa domanda Milgram arruolò 40 uomini in modo volontario, a cui propose un esperimento sul tema dell’apprendimento che prevedeva l’interazione tra tre figure:

1. il ricercatore, vestito con un camice bianco per rimandare l’idea dell’autorità (in questo caso dello “scienziato”);

2. il volontario, che avrebbe vestito i panni dell’insegnante;

3. il complice del ricercatore, presentato all’altro uomo come volontario, che avrebbe vestito i panni dello studente.

Il tema dell’esperimento era appunto l’apprendimento, ovvero era comunicato al volontario che era all’interno di un programma sperimentale orientato alla valutazione dell’utilizzo delle punizioni nel processo di apprendimento. Il volontario/insegnante avrebbe dovuto proporre all’altra persona una serie di compiti mnemonici e ogni volta che il volontario avesse rilevato un errore, egli avrebbe dovuto infliggere all’altra persona una scossa elettrica di 15 volt, aumentando il voltaggio di altri 15 volt per ogni errore, fino ad un massimo di 450 volt.

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Il volontario, dopo aver incontrato il complice del ricercatore ed essersi presentato, poteva vedere gli assistenti che lo aiutavano a sedersi e ad applicarsi gli elettrodi collegati a questa macchina disegnata da Milgram, che aveva diverse manopole per incrementare gradatamente il voltaggio e che riportava le etichette per identificare l’intensità della scossa da “lieve” fino a “forte”, “pericolo grave scossa” e, per ultimo, l’eloquente dicitura “XXX”.

Durante l’esperimento invece il complice non era più visibile dal volontario, ma per ogni scossa quest’ultimo poteva udire la voce dell’uomo, in realtà pre-registrata, che si lamentava, chiedeva di interrompere l’esperimento, accusava problemi di cuore, protestava contro il ricercatore e infine il silenzio, associato alle scosse più alte.

Nei casi in cui il volontario avesse esitato nel dare la scossa all’altra persona, il ricercatore, presente nella stanza, avrebbe esortato a continuare utilizzando alcune frasi prestabilite come “per favore continui”, “l’esperimento richiede che lei continui”, “è essenziale che lei continui”.

In quanti, su 40 partecipanti, avrebbero obbedito a questi ordini?

La banalità del male (Hannah Arendt)

Prima di iniziare l’esperimento Milgram chiese a studenti in psicologia e a psichiatri affermati una stima di quante persone avrebbero obbedito all’autorità fino a dare la scossa più alta, quella letale, al proprio compagno. In entrambi i casi i suoi interlocutori diedero la medesima valutazione: considerando la possibile incidenza di personalità antisociali nella popolazione, si presumeva che solo l’1% dei partecipanti sarebbe andato fino in fondo.

I risultati dell’esperimento dipingono gli esseri umani in modo molto diverso.

Su 40 partecipanti, 26 arrivarono a dare la scossa più alta. Il 62,5% premette l’interruttore che riportava la dicitura “XXX”, la scossa letale. Tutti, il 100% dei partecipanti, diede almeno una scossa, mentre in media la scossa più alta raggiunta dai volontari toccava i 360 volt.

I risultati dell’esperimento hanno scandalizzato la popolazione. Sembra che due terzi della “gente perbene” sia pronta ad eseguire gli ordini di un’autorità considerata legittima, in questo caso un rappresentante della scienza, compiendo azioni potenzialmente letali contro un proprio simile. E’ possibile vedere sui volti dei volontari la tensione, il conflitto, lo stress provato in quel momento. Questo esperimento è molto controverso dal punto di vista etico e ora non potrebbe mai essere riprodotto in quanto sottopone i partecipanti ad un inaccettabile livello di stress. Alcuni partecipanti, anche dopo aver scoperto che l’esperimento era finto, sono rimasti scioccati per quello che erano stati capaci di fare ad un’altra persona.

L’obbedienza all’autorità è uno dei principali ingredienti perché la società possa funzionare, ma a che punto l’obbedienza diventa uno strumento per fare in modo che le persone si comportino contro la propria volontà?

COME DIFENDERSI DALLA CIECA OBBEDIENZA?

Riproduzioni dell’esperimento di Milgram hanno testimoniato come non vi siano particolari differenze nei tassi di risposta dal 1963 fino agli anni ’80. Allo stesso modo, il genere dei partecipanti non influiva sulle statistiche. Uomini e donne sono capaci delle stesse cose, e i cambiamenti sociali non sembrano modificare il comportamento delle diverse generazioni.

Tuttavia, alcune varianti possono permetterci di fare alcune riflessioni su elementi importanti per discriminare le diverse situazioni:

1. coltivare la vicinanza

Come abbiamo detto prima, il volontario era in grado di sentire la vittima, ma non di vederla. In alcune varianti dell’esperimento in cui la vittima era esposta allo sguardo del partecipante si è verificato una drastica diminuzione di volontari disposti ad andare avanti con le scosse. Inoltre, in un ulteriore esperimento in cui per infliggere la punizione era necessario prendere fisicamente il braccio della vittima e poggiare la sua mano su una piastra elettrificata la maggior parte dei partecipanti si rifiutava di procedere ed interrompeva l’esperimento. Per capire se quello che ci è stato chiesto di fare può danneggiare qualcuno, cerchiamo di costruire una vicinanza fisica, emotiva ed empatica con le persone coinvolte.

2. ascoltiamo le nostre emozioni

Quando siamo a contatto diretto con la “vittima” possiamo vedere il suo sguardo su di noi. In questa variante dell’esperimento i partecipanti hanno riportato sentimenti di imbarazzo, vergogna, colpa nei confronti della persona coinvolta. Anche questi sentimenti hanno contribuito a rendere inaccettabile andare avanti. Allo stesso modo, la tensione, lo stress provato dai partecipanti nel primo esperimento rispecchiavano la consapevolezza che ciò che stavano facendo era sbagliato. Le nostre emozioni sono dei campanelli di allarme che suonano prima ancora della nostra razionalità. Può essere importante imparare a riconoscere e integrare entrambi questi aspetti.

3. interpellare autorità alternative

C’è qualcosa che non mi quadra in ciò che mi è stato ordinato: per prima cosa prendo tempo. Per riflettere, per ascoltare le mie emozioni, per mettermi nei panni degli altri. Ma se ancora non riesco a prendere una decisione, può essere utile interpellare un’altra autorità. Una variante dell’esperimento che prevedeva la presenza di due scienziati in disaccordo tra loro (uno esortava a continuare, l’altro ad interrompere) registrava un bassissimo tasso di obbedienza. Il disaccordo porta a delegittimare l’autorità e aiuta a vedere la persona al di là del ruolo. Le figure autoritarie sono uomini e donne come noi, con pensieri e sentimenti, e possono sbagliare.

4. disobbedire non vuol dire per forza ribellarsi

Per qualcuno la ribellione è il proprio pane quotidiano. Ad altri invece non piace porsi in opposizione all’autorità. In entrambi i casi, rifiutarsi di obbedire non comporta automaticamente la ribellione e la messa in discussione del ruolo autoritario. Cerchiamo di salvaguardare gli spazi di autonomia, di scelta e di pensiero indipendente, permettendo lo svilupparsi di diversi punti di vista anche in contrasto con l’autorità vigente. Le innovazioni possono permettere alle società di progredire, mentre la replicazione pedissequa dei medesimi protocolli porta solo alla riproduzione della mera burocrazia.

Bibliografia: Stanley Milgram, Obedience to Authority