Zoom Fatigue: la trappola dello smartworking

Autori: IDEGO

“Ma perché mi sento così esausto dopo una giornata di videochiamate? Eppure, tutto ciò che ho fatto è semplicemente stare seduto su una sedia a fissare un monitor”.

Negli ultimi due anni di lavoro costretto a casa, lo avremo pensato tutti almeno una volta.

Ebbene, udite udite, non è solo un’impressione ma una vera e propria forma di affaticamento e disagio.

Si chiama Zoom fatigue lo stress provato dalle videochiamate di lavoro, dal nome della nota piattaforma tecnologica utilizzata, senza nulla togliere ai vari Google Meet e Microsoft Teams.

Una cosa è certa, questo periodo ha visto tali strumenti di videoconferenza diventare le piattaforme più usate per l’interazione umana socialmente distanziata per molte persone che prima lavoravano in ufficio. 

L’esplosione senza precedenti del loro utilizzo in risposta alla pandemia ha involontariamente generato un esperimento sociale non ufficiale, che mostra a livello demografico un fatto genericamente noto: l’interazione virtuale può avere delle conseguenze significative sul cervello. 

Lo studio dell’Università di Stanford

In questo senso, molte ricerche dimostrano come la nostra psiche venga messa veramente a dura prova dalle riunioni virtuali. 

Da un punto di vista prettamente psicologico un recente studio firmato da Jeremy N. Bailenson, docente di comunicazione dell’Università di Stanford, nonché fondatore dello Stanford University’s Virtual Human Interaction Lab, ha portato alla luce alcuni interessanti aspetti di questo malessere. 

In particolare, Bailenson ha elaborato un questionario per misurare i vari aspetti della Zoom fatigue: stanchezza generale, fisica, sociale, emotiva e motivazionale.

I risultati della ricerca hanno individuato i principali fattori di stress per chi utilizza, per tempi prolungati, questi strumenti.

L’indagine fornisce inoltre importanti suggerimenti agli sviluppatori su come migliorare le tecnologie, elaborando una serie di consigli per gli utenti. 

Zoom Fatigue: quali sono le cause?

Uno dei fattori presi in considerazione è la quantità di contatto visivo durante le videochiamate, superiore a quello di una riunione in presenza.

Infatti, nel corso di una videoconferenza, tutti i partecipanti sono esposti sullo schermo con il volto in primo piano per l’intera durata del collegamento. 

In questo modo, la normale distanza che si avrebbe durante una conversazione faccia-a-faccia viene totalmente annullata.

Se poi consideriamo che la nostra mente associa solitamente il fattore vicinanza, ad un contesto di intimità o pericolo, capiamo che la stiamo confondendo parecchio. 

Inoltre, non sono concesse distrazioni, anzi è richiesta la massima concentrazione.

Questa esposizione prolungata allo sguardo altrui, a lungo andare, può diventare un fattore di stress.

Un altro aspetto da non sottovalutare è legato all’effetto di continuare a guardarsi ad uno “specchio virtuale” per diverse ore.

Secondo numerose ricerche quando ci si guarda allo specchio si tende a essere critici con noi stessi, e ciò può generare emozioni negative.

Anche l’immagine del nostro spazio di lavoro puo generare una certa ansia a causa di eventi che potrebbero farci imbarazzare davanti ai nostri colleghi.

Il pensiero costante che cani, gatti, bambini o altre persone interrompano le nostre videochiamate ci costringe a monitorare continuamente l’ambiente circostante e ciò alla lunga diventa particolarmente estenuante.  

Su Zoom le basi della comunicazione vengono distorte

In aggiunta, un incontro in presenza favorisce la comunicazione, in particolare la comunicazione non verbale. 

Lo sappiamo bene: l’uomo comunica anche quando non parla (quanto è bello il non verbale!)

Durante una conversazione che avviene di persona, il cervello si concentra in parte sulle parole pronunciate, ma ricava ulteriori significati anche da decine di segnali non verbali, come ad esempio il fatto che l’interlocutore ti guardi negli occhi oppure distolga lo sguardo, se si agita mentre parliamo, oppure se inspira velocemente per intervenire nella conversazione. 

Questi segnali aiutano a dipingere un quadro olistico di quello che viene veicolato e di quello che ci si aspetta in risposta dall’interlocutore.

Poiché l’uomo si è evoluto come animale sociale, percepire questi segnali è naturale per molti di noi: richiede un minimo sforzo cosciente di analisi e può gettare le basi per una vicinanza emotiva

Ma nelle videoconferenze, facciamo molta più fatica ad inviare e ricevere questi tipi di segnali: tutto ciò causa un forte dispendio di energia.  

Tuttavia, una normale videochiamata può alterare queste abilità radicate e richiede un’attenzione costante e intensa alle parole.

Pensate, in questo senso, che se una persona è inquadrata solo dalle spalle in su, viene a mancare la possibilità di notare il gesticolare delle mani o un altro qualsiasi segnale del corpo. 

Per chi è particolarmente dipendente da questi segnali non verbali, può essere una grande perdita non averli.

Troppi volti su cui focalizzare l’attenzione e la mente va in tilt!

Ad amplificare il senso di spossatezza vi è anche la cosiddetta modalità “gallery view” ovvero le schermate con più persone.

Tale assetto mette alla prova la visione centrale del cervello, forzandolo a decodificare più persone allo stesso tempo, nessuna delle quali emerge in modo significativo, nemmeno chi sta parlando. 

In poche parole, siamo impegnati in attività multiple, senza concentrarci completamente su una in particolare.

La psicologia la definisce attenzione parziale continua, ed è tipica sia degli ambienti virtuali così come di quelli reali.

Ad esempio, pensiamo a quanto sarebbe difficile cucinare e leggere allo stesso tempo.

Questo è il tipo di attività multitasking che il cervello prova a eseguire, e in cui spesso fallisce, quando partecipa a una videochiamata di gruppo. 

Ciò porta al problema per cui le videochiamate di gruppo si rivelano meno collaborative e più simili a una serie di “compartimenti stagni”, in cui parlano solo due persone alla volta mentre gli altri ascoltano.

Se si visualizza solo la persona che di volta in volta parla, non si vedono le reazioni dei partecipanti non attivi, che normalmente vengono percepite con la visione periferica. 

Per alcune persone, la divisione prolungata dell’attenzione crea la strana sensazione di essere sfiniti senza aver combinato nulla.

Il cervello è sopraffatto da un eccesso di stimoli non familiari mentre è iper-focalizzato sulla ricerca di segnali non verbali che non riesce a trovare

Gli stessi momenti di silenzio, che tanto odiamo nella conversazione nella vita reale, diventano ancora più imbarazzanti online, suscitando nei partecipanti ansia da prestazione. 

Questione di sedentarietà

Ok il benessere psicologico, ma anche sul piano fisico siamo messi a dura prova nel corso di riunioni da remoto, che si protraggono per ore. 

Infatti, la maggior parte delle camere ha un campo visivo prestabilito, il che significa che una persona deve generalmente rimanere nello stesso punto. 

Il movimento viene così a limitarsi in modi che non sono naturali.

Ne consegue quindi, una maggiore sedentarietà la quale può avere di conseguenza ripercussioni sulla nostra salute fisica se mantenuta per periodi di tempo troppo prolungati .

Al contrario, le interazioni in presenza o attraverso chiamate vocali permettono di spostarsi nell’ambiente, di camminare e di cambiare spesso posizione. 

Zoom Fatigue: i consigli del professor Bailenson

Come scongiurare quindi la Zoom Fatigue?

Il professor Bailenson propone in questo senso alcuni accorgimenti per ridurre lo stress provocato dalle video-call.

Ad esempio, finché non si avrà un aggiornamento dell’interfaccia delle piattaforme, potrebbe essere utile rimpicciolire le dimensioni della finestra Zoom rispetto al monitor per ridurre al minimo le dimensioni del viso e quindi risolvere il problema del contatto visivo eccessivo.

Per quanto concerne il discorso dello “specchio virtuale, il pulsante “nascondi vista personale”, a cui è possibile accedere facendo clic con il pulsante destro del mouse sulla propria foto, può risolvere parzialmente il problema.

Veniamo al grattacapo sedentarietà che effettivamente potrebbe sembrare difficoltoso da scongiurare vista la dinamica “non dinamica” dello smartworking.

Qualche flessione davanti allo schermo? Non ce nè bisogno secondo Bailenson; al contrario potrebbe essere utile una videocamera esterna più lontana dallo schermo

Questo artificio, infatti, consentirà di camminare e di scarabocchiare nelle riunioni virtuali proprio come facciamo in quelle reali.

Ultimo, ma non meno importante, il discorso del carico cognitivo di queste benedette video-call.

In questo caso, durante lunghi periodi di riunioni, potrebbe essere funzionale concedersi una pausa “solo audio”. 

Non si tratta semplicemente di spegnere la fotocamera per prendersi una pausa dal dover essere attivi non verbalmente, ma anche di allontanare il corpo dallo schermo così da evitare quel senso di spossatezza e affanno virtuale.

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Fonti:

Ramachandran V., (2021) “Stanford researchers identify four causes for ‘Zoom fatigue’ and their simple fixes”, https://news.stanford.edu/2021/02/23/four-causes-zoom-fatigue-solutions/

Sklar J. (2020). “Zoom fatigue”: come le interazioni virtuali influenzano il nostro cervello, National Geographic.