Salvare la faccia in prigione: quando la reputazione è la cosa più importante

Una poesia di Charles Reznikoff (citata ne “L’arte della Fame” di Paul Auster) recita:

Il vagabondo con le scarpe rotte

E i vestiti sporchi e tutti grinze –

Sporche le mani e la faccia –

Estrae di tasca un pettine

E con cura si pettina i capelli.

Cosa rimane a una persona quando non ha più niente? Quando non ha denaro, vestiti, una casa, delle relazioni?

Come il vagabondo di Reznikoff si pettina i capelli con cura e dignità, conservando la scintilla di umanità che lo rende simile alle altre persone inserite nel proprio contesto sociale, così uno studio condotto in un carcere italiano invita a riflettere sul fatto che quando non si ha più niente, l’unico bene che rimane è la propria faccia, ovvero la propria reputazione.

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Tutto il mondo è teatro

Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti.
(William Shakespeare)

Secondo Erving Goffman (La vita quotidiana come rappresentazione) la società è un palcoscenico in cui ogni persona interpreta il ruolo che gli è stato affidato nel contesto. Ognuno ha la possibilità di passare dal palco ad un retroscena, ovvero un luogo sicuro in cui si può togliere le maschere indossate, e allentare il continuo controllo su di sé. Secondo Goffman gli individui opererebbero un continuo automonitoraggio sui propri comportamenti e sulle impressioni che gli altri potrebbero avere di loro, allo scopo di salvaguardare la propria faccia e la propria reputazione.

Ognuno di noi propone diverse varianti di sé alle persone con cui interagisce ogni giorno. Provate a chiedere cosa pensano di voi le persone che vi stanno intorno. Potreste accorgervi che mentre i vostri genitori vi dipingono come scontrosi e taciturni, i vostri amici vi descrivono come scatenati e goliardici, infine, il vostro capo come precisi e solerti.

Ma quando questi piani si intrecciano e, ad esempio, incontriamo il capo mentre stiamo festeggiando fuori con gli amici, il nostro corpo si contrae, in tensione tra due rappresentazioni e identità contrastanti e viviamo la sensazione di imbarazzo.

L’imbarazzo è ciò che proviamo quando la nostra reputazione è minacciata, ed è l’anticamera della vergogna, che ci pervade nel momento in cui la maschera è completamente sgretolata e la reputazione che abbiamo costruito è definitivamente intaccata.

Il palcoscenico in prigione

La nostra vita è piena di diversi contesti e opportunità: se non ci sentiamo a nostro agio in un contesto possiamo sempre cambiare.

Ma cosa succede quando le persone sono obbligate a condividere lo stesso contesto per molti anni con altri “compagni di sventura”? E’ ciò che accade in carcere, un luogo in cui i ruoli sono rigidamente prescritti e che si mantiene su un complesso set di regole formali ed informali.

Spesso gli esterni pensano che la prigione sia un posto pericoloso e violento. Tuttavia, dopo pochi giorni passati in una delle celle sovraffollate delle carceri italiane ci si accorge che non è tanto la violenza ciò che può incutere timore, ma la possibilità di perdere la reputazione di fronte ai propri compagni.

C’è un complesso sistema di regole informali che controlla le interazioni in carcere. La prima e più importante regola riguarda il dimostrare di essere persone degne di fiducia.

Per ottenere la fiducia non occorre essere forti o litigiosi, anzi spesso sono malviste le persone che litigano senza motivo o per ragioni futili. La fiducia si basa invece sul rispetto delle regole interne, ovvero necessariamente sul farsi gli affari propri e non tradire gli altri.

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La bicicletta: un’arma per minare la reputazione degli altri

Il glossario carcerario di Ristretti Orizzonti definisce la bicicletta in questo modo:

Significa raccontare cose false per i motivi più subdoli. In carcere i “biciclettari” sono odiati più dei carabinieri.

La bicicletta consiste in una storia inventata che un prigioniero mette in giro ai danni di un altro carcerato allo scopo di distruggerne la reputazione. La bicicletta è molto pericolosa perché può portare ad isolare completamente una persona e farla malvolere da tutti.

Non è certo l’origine di questo termine gergale, ma si pensa che derivi dal fatto che quando una persona ti “monta una bicicletta”, l’unica cosa che puoi fare è pedalare, cercando di stare in piedi.

Stare in piedi, ovvero non cadere… in disgrazia. Perché quando la reputazione è incrinata, rimani solo, senza compagni, senza la possibilità di contare su nessuno, ma allo stesso tempo, obbligato a condividere lo spazio e il tempo con persone che non si fidano di te e che ti considerano un infame.

Per questo motivo in prigione la maschera è più importante della faccia, e spesso i carcerati si trovano obbligati a tenere la maschera senza sosta, senza poter contare su un retroscena in cui sperimentare parti alternative di sé.

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Tutto il mondo è una prigione

La prigione si presta particolarmente bene ad analizzare le dinamiche sociali perché la mancanza di libertà impone agli individui di mettere in discussione tutto ciò che è dato per scontato e di costruire da zero una nuova modalità relazionale per adattarsi al contesto.

Ma quanto siamo liberi nella nostra vita quotidiana? Quante maschere indossiamo ogni giorno e quanto siamo affezionati a queste identità che presentiamo agli altri? Abbiamo la possibilità di accedere ad un retroscena in cui allentiamo il controllo su noi stessi?

Dopo questo studio in carcere, mi sono sempre stupito di quanto le “biciclette” fossero usate in tutti i contesti della nostra vita. Nelle diatribe familiari, tra amici, sui posti di lavoro. Quando si vuole ledere qualcuno spesso si parte dalla sua reputazione, screditando la sua immagine di fronte agli altri.

La minaccia di perdere la reputazione è così intensa che spesso ci affezioniamo così tanto alle nostre maschere finendo per subirle ed esserne noi stessi imprigionati.

Una novella di Luigi Pirandello, La carriola, racconta di un affermato e rispettato avvocato che, schiavo della maschera che si è costruito nella vita pubblica, sfoga un barlume di follia nel privato della sua stanza facendo fare la carriola alla sua cagnolina. Questo gesto è tutt’altro che liberatorio, anzi accentua ulteriormente il distacco tra la sua reputazione sociale e la repulsione che provocherebbe negli altri se scoprissero questo suo comportamento.

Allo stesso modo, accogliere acriticamente i vincoli sociali, adattarsi passivamente alle pressioni dei contesti che abitiamo e alimentare la distanza tra le nostre diverse maschere, possono farci vivere in modo alienato le nostre (normali) diverse parti di “sé” e ingabbiarci in un set di regole che potremmo non riconoscere più come nostre.

Per approfondimenti: La vita quotidiana in prigione come rappresentazione