Francesco ‘M’ Zurlo è uno psicoterapeuta che, oltre a lavorare in campo clinico ed insegnare in ambito accademico, lavora con importanti aziende e istituzioni in qualità di formatore, coach, consulente strategico ed esperto di comunicazione. Il seguente aneddoto è ripreso dal suo prossimo libro, ancora inedito.
« Sede centrale di un’azienda leader del settore. Una persona di massima fiducia del presidente è in riunione con un consulente formatore (colui che scrive) ed un account.
Il presidente della società è in volo: presto farà ritorno in sede.
Alla fine della riunione resta aperto un problema di delega che comporta una decisione che impatterà su un processo lavorativo relativamente nuovo e non ancora ben codificato.
È il far della sera, quando finalmente il presidente torna in ufficio.
Nella fretta delle molte cose quotidiane rimaste ancora in sospeso, il presidente ascolta velocemente la questione da dirimere e, tagliando corto, sentenzia: Delegatus delegare non potest! Mentre pronuncia velocemente questo brocardo latino il presidente scompare nei corridoi per dedicarsi ad altro.
La sua persona di fiducia (che, per quanto capacissima, non conosce il latino) dirà all’account che può delegare una parte del processo lavorativo.
Una persona (magari più adulta) può dare per scontato che l’altra (magari più giovane) comprenda una certa sentenza latina così come le persone più giovani possono dare per scontato che oggi sia assolutamente possibile raggiungere posizioni anche verticistiche senza possedere le basi di una cultura classica. Parte di questo incidente chiama quindi in gioco aspetti socioculturali più ampi. Sono due tempi diversi che si parlano ma si parlano in controtempo e quindi non si prendono, non si capiscono, e danno troppe cose per scontato.
Il curioso incidente verrà scoperto solo il giorno successivo.
Questo breve aneddoto, che riprendo da un lavoro non ancora pubblicato, nasconde la sua grande portata. Se, infatti, eliminassimo tutti i contenuti di questo resoconto, mantenendone le caratteristiche logiche e gli aspetti di processo, scopriremmo di trovarci di fronte ad uno degli schemi più ridondanti e diffusi di discomunicazione all’interno di contesti socio-organizzativi.
In un sistema comunicativo in cui, come nel caso considerato, mancano dei meccanismi di feedback, l’errore può propagarsi a tempo indefinito, moltiplicandosi come un virus, crescendo come una brutta carie, fino a intaccare zone vitali.
La verità è che proprio la comunicazione è ciò che non può essere delegato, ma andrebbe padroneggiato da tutti i membri dell’organizzazione nei suoi principi fondamentali, incorporando i meccanismi di feedback che permettono di trasformare l’errore in informazione.
L’ingresso nei “giochi linguistici” è il contrassegno dei circuiti delimitati dalle nostre idee, dalle città, dai paesi, dalle professioni, dalle nostre scelte e appartenenze, dalle nostre identità. Non a caso l’apprendimento dei modi e dei linguaggi interni è il primo passo per entrare nella cultura di una certa professione o di una data azienda, secondo processi che sono stati studiati -si – in profondità, ma con un effetto collaterale: si è finito con il credere che essi siano rilevanti solo nelle prime fasi dell’inserimento lavorativo; invece, come consulenti-formatori, abbiamo esperienza continua di come siano propri questi problemi – caratterizzabili in termini di comunicazione – a creare perenni confitti, fraintendimenti (fino a qui tutto bene) e condurre infine non solo a errori nelle decisioni ma, in alcuni casi, persino al fallimento dei nessi e dei legami umani che sostanziano la realtà organizzativa, minacciandone la stessa esistenza.
Le organizzazioni dovrebbero dedicare più tempo e risorse a questi aspetti?
Tutti dicono di sì, ma – come sempre – non sono completamente d’accordo.
La domanda di aiuto da parte delle organizzazioni è sempre più “esterna” e de-responsabilizzata. Per me, che non ho mai smesso di essere uno psicoterapeuta oltre che un consulente strategico, assomiglia alla famiglia che porta il bambino in cura senza assumersi le responsabilità connesse al processo terapeutico: come avviene in psicoterapia, nella maggioranza dei casi il problema non è il bambino, ma la famiglia, e senza lavorare su questa non si riesce a risolvere i problemi che il bambino manifesta.
I clinici dovrebbero essere abituati a non colludere con questa domanda e a riuscire a condurre dolcemente la famiglia al cambiamento.
Mi sembra che questa consapevolezza – che già in campo clinico è ancora insufficiente – scarseggi anche nel campo della consulenza e della formazione aziendale, così come scarseggia la formazione di qualità sulla comunicazione.
Assistiamo pertanto ad un quadro anche peggiore: si investono soldi e tempo in consulenza-formazione ma non si lavora su ciò su cui si dovrebbe lavorare. Così, alla fine, nulla cambia, anzi: plus ça change, plus c’est la même chose.
Così, sempre più spesso, vediamo organizzazioni che crescono senza implementare quei processi necessari per salvaguardarle dagli errori nei quali – presto o tardi, ma certamente – incapperanno.
Ed a pensarci bene, siamo proprio sicuri che queste riflessioni valgano solo per il mondo delle organizzazioni? »
Questo articolo è basato su un’opera in preparazione di Francesco Zurlo.