Quando si perde qualcuno ci si confronta con due aspetti legati alla propria esistenza: la morte e la perdita. Spesso si ha la sensazione che la perdita sia avvenuta senza alcun preavviso. Una persona cara, in un istante se ne va e così si ha l’idea di perdere qualsiasi legame con il resto del mondo.
Di fronte al primo aspetto non ci si può non interrogare sul senso della vita, su ciò che si è fatto, sui risultati raggiunti e su ciò che si vuole e si può ancora fare. Sul versante relativo alla perdita di una persona cara, ci si chiede quanto si sia vissuto con quella persona una relazione piena, appagante, degna di essere considerata tale e quanto altro si sarebbe potuto fare per “onorare” il rapporto con l’altro. E insieme si pensa a una serie di situazioni che si ha l’impressione che rimangano ancora aperte, ai non detti, agli atti mancati.
Il mondo del lutto non è facile da decifrare. Quando si tenta di manifestare ciò che si prova ad amici e familiari, quando si tenta di tradurre in parole questi sentimenti, suonano diversi campanelli di allarme. Chi ci sta intorno comincia a preoccuparsi per noi, anche perché, al di là di tutto, la nostra cultura, sebbene li appoggi, non ha spazi per collocare questi tetri sentimenti di dolore. Infatti in una famiglia capita spesso che ognuno si comporti in modo diverso: qualcuno cerca di dimenticare velocemente “distraendosi” come può, qualcun altro invece si strugge perché non può dimenticare una persona cara. Ogni individuo vive il lutto in maniera diversa, ma si può osservare che la maggior parte tende a soffocare il proprio dolore nel timore di turbare gli altri.
Il lutto soffocato è stato collegato alla depressione ed alla dipendenza e se non adeguatamente affrontato può “generare uno lutto tardivo e distorto” (Parkers, 1998). È necessario tuttavia tenere in considerazione che questa duplice visione della perdita e la modalità spesso opposta con cui essa si affronta sono indice di malessere e possono portare a conflitti. Non sempre, purtroppo si può conoscere cosa ci sia dietro alla modalità con cui si manifesta il lutto. Spesso, come detto il motore che spinge a comportamenti “plateali” è la consapevolezza o il senso di colpa di non aver fatto abbastanza in vita con quella persona, per quella persona. Una sorta di “mea culpa” nei confronti di qualcuno che si ha l’impressione di non aver conosciuto fino in fondo. Forse, nel “dialogo” interiore con i morti si tenta di recuperare ciò che si è perso. Di prendere per mano la persona cara con tutta la propria forza, rimandando la separazione per quanto umanamente possibile. Ciò è legato alla più profonda forma di legame che un essere umano può provare. Dal fatto che quando una persona cara muore, è difficile andare avanti.
Il lutto va a trovare una sua identità, nella tendenza a misurare ciò che si poteva fare e che non si è fatto, nel tentativo di ritrovare, nei gesti (andando al cimitero, portando fiori freschi sulla tomba, far dire una messa) un senso di riscatto rispetto a ciò che spesso si perde perché sopraffatto da incomprensioni, risentimenti, indifferenze.
Il lutto legato alla perdita di una persona cara ha chiaramente radici culturali. Quando la morte viene vista come una normale evoluzione del ciclo di vita, essa viene accettata in modo più sereno, accompagnata anche da una comprensione ed un’apertura al dolore che caratterizzano il lutto.
Nella cultura ebraica ad esempio ci sono periodi temporali prestabiliti: 7 giorni (shiva), 30 giorni (shloshim) e 12 mesi (avelut), in cui i familiari del defunto dovrebbero astenersi da celebrazioni sociali. Ciò al fine di ricostruirsi da soli a seguito della caduta in pezzi generata dalla perdita di un congiunto. In altre culture come ad esempio in Mali si indossa il blu per un anno dopo il lutto, così che non venga nominato colui che è morto e si possa avere lo spazio necessario per piangere. Cosa molto simile avviene ancora oggi in Italia, dove i familiari più stretti del defunto hanno l’abitudine di vestire di nero per l’anno successivo (o un periodo maggiore) a seguito della dipartita di un congiunto (moglie, marito, figlio).
Nel rapporto con i defunti spesso si cerca di dare un senso alla propria vita, avendo un nuovo modo di vedere le cose all’ombra delle domande esistenziali che caratterizzano l’essere umano: “chi siamo e dove andiamo”. Una sorta di consapevolizzazione legata alla presa di coscienza che siamo di passaggio su questa terra, che la vita è breve per gettarla e non viverla a pieno ritmo ritagliandosi i giusti tempi per se stessi e per i propri cari.
© Dott. Pasquale Saviano
Psicologo – Psicoterapeuta