In questo articolo non voglio entrare in merito alla spiegazione del perché e del per come dell’omosessualità.
Certo è che il gene-gay non esiste o, almeno, non è ancora stato scoperto. Però, partendo dal presupposto che non c’è ancora totale chiarezza in merito, il pericolo di entrare in tematiche del genere è di scontrarsi con ideologie, chiusure, stereotipi, pregiudizi o prese di posizioni, per un lato o per l’altro lato, che rischierebbero di stimolare una guerra virtuale.
L’unica cosa che, come psicologa, ho il dovere professionale di dichiarare, è che l’omosessualità non è una malattia. Il mio e nostro compito, come psicologi, è di aiutare ogni persona a vivere serenamente la propria vita, incluso il proprio orientamento sessuale (riferimento all’Articolo 4 del Codice Deontologico degli Psicologi)*.
Detto ciò, in questo articolo voglio parlare del coming out e dell’importanza di attraversare questo momento.
COMING OUT e OUTING
Per chi non lo sapesse, con coming out (“uscire fuori”) si intende il processo che porta una persona omosessuale ad accettare dentro di sé e a dichiarare poi fuori, il proprio orientamento sessuale. Spesso si utilizza erroneamente il termine outing che invece riguarda le situazioni in cui l’omosessualità di qualcuno è stata esposta da terze persone, senza il consenso dell’interessato/a.
Perché è importantissimo riuscire a fare questo passaggio di svelamento di sé?
Consideriamo che l’Omosessualità è sempre esistita ma vissuta, per moltissimi anni, segretamente. Nella serie televisiva “Il Paradiso delle Signore”, ambientato nella Milano di fine anni ’50, fra i vari intrecci, si raccontano anche le avventure di un ragazzo che, nella confusione della sua vita affettiva, capisce di essere omosessuale. Paradossalmente, è proprio il suo futuro suocero ad accorgersene, perché lui stesso omosessuale ma con un matrimonio e una vita familiare come copertura.
Tutt’oggi molte persone vivono incoerentemente con il proprio orientamento.
Perché questa copertura e questo segreto?
Perché fino a “ieri”, ovvero fino al 1973, l’Omosessualità era vista come una patologia e solo nel 1990 è stata completamente eliminata dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (il DSM).
Ma facciamo un salto indietro.
Nella prima versione (1952) del DSM, il manuale diagnostico che raccoglie le varie patologie psicologiche e psichiatriche e che funge da “vocabolario” comune per noi professionisti a livello mondiale, l’Omosessualità era inserita fra i Disturbi Sociopatici di Personalità. Nella seconda pubblicazione del DSM, nel 1968, si fece rientrare l’Omosessualità fra le “Parafilie“, ovvero fra le deviazioni o perversioni sessuali, al pari della Pedofilia (se vuoi saperne di più, leggi l’articolo “50 SFUMATURE DI GRIGIO“). Nel DSM-III del 1974, l’Omosessualità non venne più vista come Parafilia ma rimase ancora nel Manuale come “Omosessualità Egodistonica”, in riferimento alle situazioni in cui non c’è l’accettazione, da parte della persona, del suo orientamento sessuale. Dalla quarta revisione del DSM, nel 1994, ufficialmente la parola “Omosessualità” non rientra più nel Manuale, sotto alcuna forma.
Trent’anni non sono sufficienti per trasformare a livello universale la visione che fino al 1990 si è avuta dell’Omosessualità. Se ci pensiamo, in un altro ambito che è quello psicologico, nelle “Case di Cura” ci andavano i “matti” e tutt’oggi, nonostante i manicomi siano stati chiusi nel 1978 con la Legge Basaglia, andare-dallo-psicologo per moltissime persone è ancora sinonimo di avere dei problemi mentali, di essere pazzi, e non di necessità di conoscersi di più, di scoprirsi, di volersi migliorare.
Bisogna farne ancora di strada…
IL SONDAGGIO
Qualche tempo fa ho creato un sondaggio con delle domande ben specifiche e l’ho inviato ad amici e persone che conosco, uomini e donne (e loro amici) che hanno attraversato questa fase, chiedendo loro di condividere la loro esperienza al fine di poter scrivere questo articolo.
Un elemento che è emerso da questo sondaggio, al quale hanno risposto quasi una quarantina di persone, è che l’aspetto più difficile non è stato riconoscere di essere attratti dalle persone dello stesso sesso, quanto piuttosto quello di doverlo rivelare agli altri, in particolare ai genitori.
Alcune di queste persone, alla domanda “Come è stato affrontare i genitori?” ha risposto di non averlo mai dichiarato apertamente e di fare la propria vita lasciando chiaramente intuire la questione.
Questo esprime quanto grande sia il timore di rivelarsi ai genitori.. perché? Perché, nel profondo, c’è la paura di non essere accettati. Del resto, perché esistono le bugie, se non fosse che per la paura di dire la verità?
Dal punto di vista di chi vive il coming out
Consideriamo innanzitutto che se c’è qualcosa che ammala la persona, le coppie e le famiglie (anche a livello trigenerazionale) sono i non-detti. I non-detti sono i segreti, le storie camuffate, le bugie, le parole taciute…. o distorte. Vivere con un segreto, vivere con una maschera, è dannoso per la mente e per il corpo, di qualsiasi tipo di segreto o di maschera si stia parlando.
Dal punto di vista di chi vive il coming out, è fondamentale lavorare internamente per trovare la forza per dire e accettare, di fronte allo specchio e al proprio mondo di relazioni, chi si è.
C’è chi potrebbe pensare che non è necessario rivelarlo, che si può anche stare in silenzio… con il rischio di vivere la propria sessualità come un peccato, qualcosa di cui vergognarsi.
Non si cambia, perché si ama una persona anziché un’altra.
Si è sempre se stessi, anzi, dichiarandolo lo si è ancora di più.
Il livello di stress che chi fa coming out vive, è altissimo, ancora di più se la realtà in cui la persona è inserita è piccola, chiusa e bigotta (pensate alla differenza tra l’omosessualità vista con gli occhi del Sud o del Nord nel film “Cado dalle nubi”, di Checco Zalone).
Le risposte che moltissime persone hanno dato alla domanda “Come è cambiata la tua vita dopo il tuo coming out?” spiegano da sole l’importanza di farlo.
Alcune testimonianze
- “Ora sono me stesso”
- “Vedere che i miei genitori hanno cominciato a guardarmi e accettarmi per la mia scelta, e non ad aspettarsi da me qualcosa che non esisteva, mi ha fatto finalmente sentire di essere amata”
- “Non dovevo più mentire. Non capivo perché gli altri quando sono innamorati, possono gridare al mondo il loro l’amore e io invece mi dovevo convincere che ero sbagliato. Adesso anche io mi sento libero.”
- “Odiavo dire bugie, soprattutto ai miei genitori. All’inizio non l’hanno presa bene. Anzi. Poi però hanno capito e mi hanno accettato al 100%, incluso il mio compagno”
- “Non l’ho ancora detto. Sono anni che mi tengo questo segreto anche se mia madre lo dovrebbe aver intuito perché vivo insieme da 5 anni con un ragazzo. Anche se lo sa, fra me e lei è come se ci fosse un muro invisibile. Vorrei tanto trovare quel coraggio in più per dirlo, senza sentirmi giudicato. La mia vita, almeno a casa, sarebbe sicuramente più serena.”
Dal punto di vista dei genitori
I genitori sono i più temuti “giudici” di questa rivelazione. Dire ai genitori “Sono gay“, significa metterli di fronte ad una inevitabile modifica delle aspettative. Aspettative che parlano il linguaggio dell’eterosessualità: “Ti immaginavo sposato con una brava ragazza” o “Ti immaginavo sposata con un bravo ragazzo”… e con dei figli.
Partendo dal presupposto che in alcune famiglie, come è emerso dal sondaggio, è stato naturale rivelare “qualcosa che era già chiaro da tempo“, mentre per altre il coming out del figlio o della figlia arriva come “un fulmine a ciel sereno“, è fondamentale che i genitori non neghino questa realtà al figlio.
In psicologia si parla di superamento del lutto, che non ha a che fare con un lutto fisico, ma con l’elaborazione della morte delle idee, delle convinzioni e delle aspettative che, fin dalla nascita del figlio erano state riposte su di lui. Lo stesso può avvenire anche nelle situazioni in cui un figlio rivela la sua vocazione sacerdotale, mentre i genitori se lo immaginavano “accasato e con figli”.
Ma non è responsabilità dei figli occuparsi del lutto dei genitori. E’ bene che ognuno si occupi di se stesso e di elaborare le proprie crisi.
Paradossalmente in questi momenti sembra perdersi l’elemento più importante… la felicità. Per essere Felici, non si può pensare di stare con qualcuno dal quale non si è attratti. Ci si riesce a stare solo quando la paura di rivelarsi è così grande, da portare la persona a concretizzare una relazione di copertura, indossando una maschera di falsità che dura 24/24 h.
Ma le maschere vanno bene solo a Carnevale. Per il resto dell’anno facciamo in modo di essere noi stessi.
Perché rivolgersi ad uno psicologo?
Come ho scritto sopra, il nostro compito come psicologi è di aiutare le persone a stare bene con se stesse e nel mondo e a vivere e ad accettare tutte le parti di sé (ovviamente, quando queste non portano a danni a sé o agli altri come invece è nel caso della Pedofilia; qui si lavora non per accettare ma per cambiare).
Rivolgersi allo psicologo è un validissimo aiuto sia per chi fa il coming out, sia per i genitori.
Per chi fa coming out, l’aiuto che dà lo psicologo non è per cambiare, ma per capire e per trovare dentro di sé la forza per sostenersi gestendo lo stress nei momenti di conflitto (soprattutto familiare).
Per i genitori, non perché trovino un modo per cambiare il figlio, ma per aiutarli a fare i conti con ciò che nel figlio avevano riposto, idee, sogni, fantasie ma anche scheletri personali del passato. Molte volte questo momento diventa la prima occasione per rispolverare la propria storia personale che, per un motivo o per un altro, non si è mai avuto il coraggio di andare a vedere ma che ora diventa fondamentale scoprire e conoscere. Insomma, affrontare un altro coming out, più pesante e difficile: quello con se stessi.
(Leggi l’articolo “DARE PAROLA AL DOLORE“)
DR.SSA ILARIA CADORIN
Psicologa n°9570 Albo Psicologi del Veneto
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