Il primo ricordo che ho dell’ipocondria è quello di una visita sportiva cui dovevo sottopormi alla tenera età di dieci anni. I dieci anni dei primi anni’90: quelli dei cartoni animati alla tv, del succo all’arancia Billy e delle partite a calcio col Super Tele, per intenderci. Era una visita di routine, ma era pur sempre una visita diversa dalle solite cui mi sottoponevo prima di passare per le forche caudine delle vaccinazioni “obbligatorie”. Si trattava di salire e scendere un po’ di scalini, quindi di sottoporsi a un elettrocardiogramma e a un’auscultazione del respiro e del battito cardiaco. Nulla di particolare, insomma. Tuttavia, chissà per quale ragione, la mia mente iniziò a suggerirmi che no, che non era affatto tutto a posto. Che se mi veniva richiesta una visita specifica ciò significava che c’era qualcosa di “specifico” che non andava. Che quel soffio che sentivo saltuariamente respirando non era il residuo del recente raffreddore, bensì chissà quale terribile, letale, insidiosa malattia. Erano i primi anni ’90 e avevo dieci anni, lo ricordo perfettamente. Così come ricordo che presi un post-it giallo dalla scrivania, ci scrissi sopra una diagnosi tanto raffazzonata quanto tragica (diagnosi che dedussi dall’aver scartabellato la madre di tutte le paure ipocondriache degli anni ‘80/’90: la “Grande Enciclopedia Medica Peruzzo”), e andai a nasconderlo in un cassetto della credenza, in modo che nessuno potesse trovarlo. Ripensandoci ora, non è che il cassetto della credenza fosse questo gran nascondiglio, ma a dieci anni, nei primi anni ’90, era di certo più sicuro che salvarlo nella memoria di un computer.
La funzione di suddetto post-it era quella di “confermare” la bontà delle mie auto-analisi mediche. Quando il dottore, dopo avermi auscultato ed elettrocardiogrammato, si fosse trovato a esprimere la fatal diagnosi, io avrei potuto sbandierare al mondo intero di esserci arrivato ben prima di lui. E che tutte le rassicurazioni familiari ricevute in merito non erano nient’altro che fallaci frasi di circostanza. Inutile dire che, dopo elettrocardiogramma e auscultazione, il medico mi disse che ero perfettamente in salute, quindi firmò il certificato medico sportivo e mi congedò con una pacca sulle spalle (segnatevi la “pacca sulle spalle”…). Ritornato a casa recuperai il post-it giallo e lo gettai nella spazzatura. Lo avessi conservato, con quella sua drammatica diagnosi scritta a penna nera, oggi sarebbe la perfetta copertina per quest’articolo.
L’ipocondria, infatti, è una condizione arcinota a un numero sempre crescente di persone. Colpisce indistintamente uomini e donne, ed è studiata fin dagli antichi greci i quali la ritenevano legata alle malattie della fascia addominale (non di rado gli ipocondriaci scambiano comuni dolori intercostali per infarti imminenti). Vi sono diversi gradi di ipocondria, più o meno marcati a seconda degli effetti collaterali che questa condizione comporta. L’estraniarsi dalla vita sociale per paura di contrarre chissà quale morbo potrebbe essere sintomo di un’ipocondria grave. Cambiare “filone” di malattie di mese in mese, invece, sembrerebbe tradire un’ipocondria di tipo “artistico”. Focalizzata più che altro alla creazione di diversità e all’attrazione di interesse, piuttosto che alla paura vera e propria. Mediamente si fa risolvere l’ipocondria a una necessità di spostare l’attenzione da un “pericolo” reale (una malattia conclamata, delle problematiche sociali,…) a una serie di preoccupazioni fittizie le quali attraggano su di sé attenzioni e rassicurazioni. Una sorta di richiesta di aiuto “involontaria” in presenza di una problematica non risolta o non pienamente accettata. In una società moderna caratterizzata dalla frenesia che ci spinge ad ascoltarci sempre di meno per rispondere sempre di più agli stimoli esterni, l’ipocondria più che un campanello d’allarme dovrebbe essere letta come la richiesta di una “pausa” o come il sintomo di una saturazione. Traslata agli immaginifici anni ’90 ci dovrebbe far pensare che forse è il caso di spegnere i cartoni animati alla tv, berci un buon Billy all’arancia e andare a tirare due calci al Super Tele di turno. Lasciando da parte diagnosi, post-it gialli e “Grandi Enciclopedie Mediche Peruzzo”.
Tuttavia, cari amici (ipocondriaci), sappiate di essere in buona compagnia! Perché nel corso dei secoli i personaggi famosi afflitti, in forme più o meno gravi, da questo disagio sono stati numerosissimi. Scorriamone ora una breve carrellata, nella speranza che le loro “carriere” ipocondriache siano da sprone per accantonare (almeno parzialmente) le nostre. Dopotutto, anche nel campo dell’ipocondria la vecchia massima ubi maior minor cessat calza a pennello!
Eccone la conferma:
– Charles Darwin:
Se con la sua meticolosa oggettività (espressa ne “L’evoluzione delle specie”) Darwin riuscì a sconvolgere il mondo scientifico, ancorato a logiche religiose e passatistiche piuttosto che a moderne teorie scientifiche, non lo stesso si può dire del modo cui guardò alla sua salute. Darwin, infatti, era un ipocondriaco estremamente nevrotico. Sempre sul filo del rasoio dell’ennesima, rarissima, malattia immaginaria. Per un periodo assai lungo della sua vita credette di aver contratto un parassita tropicale (ipotesi mai confermata), che tentò di curare con lavaggi intestinali di acqua gelata, bagni freddi e avvolgendosi in lenzuola bagnate. Per non farsi mancare nulla, Darwin registrava meticolosamente le sue flatulenze, cercando di dedurre da esse il decorso della sua “malattia”.
– Marcel Proust:
A differenza di molti altri celebri ipocondriaci (smentiti poi dagli eventi) va detto subito che la salute dello scrittore francese Marcel Proust era effettivamente cagionevole. Già a nove anni, infatti, Marcel iniziò a manifestare una forma d’asma psicosomatica assai fastidiosa e debilitante. Il fatto, poi, che il padre fosse uno stimato medico, luminare nel campo dell’igiene, non deve aver aiutato il giovane Marcel a formarsi un carattere libero dall’ipocondria. Proust, infatti, temendo di non riuscire a portare a termine la mastodontica opera cui stava lavorando (“Alla ricerca del tempo perduto”) causa salute malferma, aveva assunto tutto un insieme di accortezze “igieniche” cui sottoponeva tanto la sua servitù quanto coloro i quali volevano fargli visita nella sua famosa “stanza-bunker”. Non erano ammessi fiori (i pollini aggravavano la sua asma), non erano ammessi profumi e il suo bagno disponeva sempre di una ventina di asciugamani, da gettarsi subito non appena utilizzati. Proust odiava i rumori, così fece completamente rivestire la sua stanza di sughero, in modo da isolarsi acusticamente dal resto del mondo. Ciò lo portò a sviluppare una fastidiosa allergia al sughero, la quale aggravò i suoi già seri problemi respiratori. Morì per una bronchite mal curata all’età di cinquantun anni. Vittima, involontaria, di un’ipocondria genealogica.
– Glenn Gould:
L’8 dicembre del 1959 un tecnico della fabbrica di pianoforti Steinway incontrò il grande pianista Glenn Gould. Il malcapitato espresse la gioia per quell’incontro dando una “pacca sulla spalla” del maestro. Gould non apprezzò e apostrofò duramente il tecnico. Qualche settimana dopo Gould cancellò tutti i concerti. Nel giro di due mesi incontrò cinque medici, convinto che la pacca sulla spalla aveva compresso un nervo della vertebra cervicale. Per curarsi portò un gesso integrale per sei settimane e si sottopose a un centinaio di manipolazioni ortopediche. A quel punto, semplicemente, denunciò la Steinway. Basterebbe quest’aneddoto per descrivere l’ipocondria del pianista Glenn Gould, ma andiamo oltre. Ossessionato dai germi Gould vestiva sempre abiti pesanti, sciarpe e guanti anche d’inverno. Non amava il contatto umano, raramente stringeva le mani alle persone che lo salutavano. Redigeva in maniera diligente un diario dei suoi disturbi, segnalando i vari decorsi delle sue malattie immaginarie. Negli ultimi vent’anni di vita non diede più concerti, smise di frequentare “fisicamente” altre persone, limitandosi a lettere e telefonate. Se non si fosse imbottito di antidolorifici per una vita intera, forse non sarebbe morto per collasso a soli cinquantadue anni.
– Woody Allen:
L’attore e regista Woody Allen è noto per la sua ipocondria dilagante. Ipocondria che spesso inserisce nei suoi film, dando vita a dialoghi o monologhi esilaranti. In un articolo scritto nel gennaio del 2013 per il New York Times, Allen parlava della sua condizione definendosi un allarmista piuttosto che un ipocondriaco. Da lì partiva la descrizione di diagnosi improbabili, paranoie notturne, allarmismi per cui il sonno della moglie finiva per essere la sola vittima. Dopo una breve descrizione delle sue assurde (e consapevoli) paranoie, Allen finiva per tirare la seguente conclusione: «riassumendo, ci sono due gruppi distinti, ipocondriaci e allarmisti. Entrambi soffrono a modo loro, e le caratteristiche di un gruppo possono sovrapporsi all’altro, ma se sei un ipocondriaco o un allarmista, a questo punto, uno dei due è probabilmente meglio che essere un repubblicano». O un elettore del PD.
– Adolf Hitler:
Se “anche i ricchi piangono”, con Hitler si potrebbe dire che “anche i dittatori sanguinari soffrono di ipocondria”. Hitler, infatti, oltre che un folle maniaco era un ipocondriaco di prim’ordine. Depressione, paura di essere impotente, meteorismo, Parkinson allo stato iniziale: insomma, Hitler non si fece mancare nulla. Schiavo delle prescrizioni del suo medico personale (il dottor Morell, “il signore delle siringhe del Reich”), Hitler assumeva circa un’ottantina di farmaci e non viaggiava mai senza la sua scorta personale. Curava il meteorismo e i dolori intestinali con iniezioni a base di stricnina (un potente veleno), la depressione con cocaina e anfetamine e, per l’impotenza, si affidava a iniezioni “speciali”. Prima di ogni incontro sessuale con la compagna Eva Braun, infatti, Hitler si rivolgeva al dottor Morell, il quale gli somministrava una sorta di proto-Viagra a base di testosterone e ormoni prelevati da prostata e sperma di giovani tori. Se ciò non bastasse, la paura di contrarre malattie spingeva Hitler a consumare il rapporto con la Braun da vestito, e solo in presenza di tovaglioli puliti che ne impedissero il contatto diretto. Come scrisse Martin Amis: «Il sesso è il modo migliore per capire gli altri. E Hitler era vuoto e privo di sentimenti». Proprio come la sua sessualità.
– Andy Warhol:
Spesso le nevrosi possono essere il viatico per un tentativo di sfogo in campo artistico i cui risultati sono ben lontani dall’essere banali. Uno dei casi più eclatanti è forse quello di Andy Warhol, padre incontrastato della Pop art e artista tra i più influenti del XX secolo. Puntiglioso ai limiti della fissazione nella sua produzione artistica, Warhol lo era anche nei confronti della sua salute. Come molti buoni ipocondriaci redigeva un diario delle sue problematiche, curandosi principalmente con medicine orientali e trattamenti new-age. Tra i più utilizzati vi era la cristallo-terapia, di cui Warhol era un assiduo cultore. In seguito all’attentato subito nel 1968 (una femminista radicale sparò a Warhol e al compagno per cause mai del tutto chiarite) e alla lunga degenza, la fobia di Warhol per gli ospedali e per la medicina tradizionale aumentò a dismisura. L’artista si rifiutava, infatti, di incrociare strade su cui si affacciassero ospedali, o di passarci in prossimità. Odiava a tal punto gli ospedali che, pur soffrendo di ricorrenti dolori alla cistifellea, rifiutò di farsi visitare fino a quando il dolore non si fece insopportabile. Purtroppo per Warhol la situazione si era a tal punto aggravata da richiedere una difficile operazione chirurgica che non andò a buon fine. Il padre della Pop art morì a nemmeno sessant’anni in seguito alle complicazioni successive all’intervento. Non sempre la cristallo-terapia è la soluzione a tutti i mali.
La carrellata di ipocondriaci famosi potrebbe continuare con molte altre, insospettabili, figure. Tuttavia credo che non aggiungerebbe molto ai casi sopra citati, né toglierebbe dalla testa i deliri ipocondriaci presenti. Piuttosto rischierebbe di farci temere per nuove, inaspettate, malattie. Le poche conclusioni che mi sento di trarre dall’ipocondria altrui è che il primo passo da compiere è quello di non lasciarsi avvitare su se stessi, cercando di portare (sempre entro certi limiti) le nostre fobie all’infuori di noi. La chiusura nell’ipocondria può essere molto dannosa, sia a livello fisico che psicologico. Allo stesso tempo, mi sento di dire che anche dall’ipocondria si può trarre insegnamento. O, in altre parole, sprone per produrre grandi cambiamenti.
Proust, chiuso nella sua stanza per paura dei germi, ha scritto uno dei libri più importanti della storia della letteratura mondiale. Warhol ha fatto delle sue nevrosi una forma d’arte. L’infermiera Florence Nightingale, una delle personalità più importanti della medicina moderna, passò gran parte della sua vita a letto convinta di essere in punto di morte a causa di sempre differenti malattie. Ciò, però, non le impedì di dare assistenza a migliaia di persone, di riformare l’assistenza infermieristica e di “spegnersi” placidamente nel suo letto alla veneranda età di novant’anni…
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