GENITORI, FIGLI E TOSSICODIPENDENZA

I dati attuali dimostrano che, nonostante tutti i limiti, l’istituzione famiglia riesce egregiamente e nella maggior parte dei casi nella cura dei figli. Tuttavia la cura dei giovani si intreccia inevitabilmente con i diversi eventi con cui essi hanno a che fare e tutto ciò è molto complesso. I genitori riescono a controllare solo alcuni aspetti della vita dei figli e quelli che non riescono a tenere d’occhio sono spesso quelli che più possono allontanare i giovani dalla retta via e sono legati a bisogni, immagini, fantasie, aspirazioni, miti…
Ma perché la maggior parte delle colpe viene attribuita alla famiglia in caso di figli tossicodipendenti? Nel suo libro: “Non è colpa di genitori”, Judit Harris, psicologa statunitense porta avanti la tesi secondo la quale i figli imparano più dai coetanei che dalla famiglia. Il suo primo dubbio riguarda il fatto che i figli di una stessa famiglia trovano ambienti diversi, non solo per le diversità genetiche, parentali ed educative ma anche perchè i genitori stabiliscono rapporti diversi con figli diversi. Questo perché la famiglia è strettamente legata ai cambiamenti interni ed esterni ed a situazioni contingenti. Spesso inoltre genitori e figli pur abitando sotto lo stesso tetto non condividono lo stesso approccio alle regole, ai valori e presentano opinioni diverse che insieme alle credenze sono influenzate dal gruppo dei pari più che dalla famiglia.

Essendo un rapporto molto articolato, sembra difficile poter affermare che la personalità adulta sia determinata solo dai rapporti parentali. Anche se le relazioni all’interno della famiglia possono influenzare le scelte dei figli, gli studiosi dei comportamenti devianti pongono sempre più l’attenzione sul fatto che non sono facilmente correlabili condotte trasgressive giovanili con un clima educativo familiare. Anzi spesso il comportamento educativo di padre e madre nasce da un compromesso tra ciò che i genitori vorrebbero e ciò che i figli consentono loro di ottenere.

Con l’approccio alla droga il giovane porta avanti un’altra parte del proprio Sé per quanto possibile slegata dalle altre parti che vengono lasciate a casa. In questa sorta di scissione alla Dr Jekyll e Mr Hyde il giovane si sente libero di agire le sue trasgressioni e finché le due sfere non si intrecciano perché la prima alla continua ricerca di limiti da superare non fagocita l’altra, i genitori restano ignari, all’oscuro di quelle che sono le reali dinamiche che mettono in atto i figli lontani dalla quotidianità casalinga.

I giovani sono alla continua ricerca di un adattamento, ecco che entrano in quel mood trasgressivo in cui si cerca costantemente l’imitazione degli altri, il fine è quello di mostrare un Io bello e pronto adatto alla platea di coetanei che è lì pronta a giudicare, accettare o allontanare. Si entra quindi in una storia e si diventa personaggi di un genere narrativo diverso. A questo punto, come risvegliati da un improvviso boato, entrano in gioco i genitori; spesso stigmatizzati come punto di partenza per il malessere di un giovane o una giovane che fanno abuso di droga. Accade grossomodo ciò che accadeva fino a quando l’omosessualità è stata assimilata ad una psicopatologia e cioè veniva imputata alle madri degli omosessuali la loro “diversità”.
A volte sono gli stessi genitori che di fronte alla scoperta delle trasgressioni dei figli guardano a loro stessi come genitori diversi, ma allo stesso tempo si interrogano su chi stiano frequentando i figli, quali siano le cause che l’hanno portato a fare ciò e contestualmente anche loro stessi si giudicano diversamente nel loro ruolo di genitori chiedendosi dove hanno sbagliato, un loop insomma da cui è difficile uscire.

Quando si parla di devianze si è soliti, nel cercare la causa, attribuire a qualcuno la colpa; così capita che i genitori si ritrovano in un nuovo ruolo ed a quel ruolo vengono assegnati dalla società attributi ed aspettative che li influenzano nel modo di vedere se stessi. Così si trovano ad accettare quel punto di vista condiviso dalla società che se un figlio sviluppa una dipendenza da sostanze la colpa è senz’altro dei genitori, finendo per fornire anche a se stessi le prove della propria responsabilità.
La psicologia del senso comune è quella che spesso influenza la società e non di meno accade quando ci focalizziamo sulle cause della tossicodipendenza e del loro nesso con la famiglia di chi abusa di sostanze stupefacenti. Cercare spiegazioni semplici attraverso l’attribuzione della colpa ai genitori del tossicodipendente è senz’altro più soddisfacente che impegnarsi a capire una realtà molto più complessa. Attribuire all’incapacità altrui la causa delle sue sconfitte porta un senso di soddisfazione più forte che soffermarsi sui propri limiti ed incapacità.

Ma quando ci troviamo ad avere a che fare con concetti come autostima e bisogno di uniformarsi abbiamo a che fare con forme di spiegazioni che attengono alla sfera delle intenzioni, quindi legate a significati e ragioni individuali non ascrivibili significativamente al concetto di “causa” che risulta quindi inadeguato e poco funzionale. Spiegare il comportamento del tossicodipendente con ipotesi causali: genitori, personalità, traumi infantili, ecc. porta solo all’illusione di soluzioni semplici.

La “correlazione illusoria” si basa su un errore di ragionamento che consiste nel correlare due eventi con una somiglianza categoriale configurandoli entrambi ad esempio come eventi negativi: visita del medico e decesso, uscire in auto ed incidenti. Ma la correlazione non implica di per sé un rapporto causale. Quindi una carriera scolastica turbolenta, una madre iperprotettiva, un padre assente non sono valori esplicativi del fatto che egli si droghi, a meno di non cadere nell’errore della correlazione illusoria. Ovvio che se questa considerazione verrà data in pasto prima a lui si sentirà legittimato ad assumerla come spiegazione e per scaricarsi di una responsabilità nell’assunzione di decisione ricostruendo tutta la sua vita in quella direzione.

È questo quello che capita quando ci si trova di fronte a tossicodipendenti: esperienze di vita tutte uguali, con le stesse caratteristiche e gli stessi vissuti. La realtà è che essi passano dalla culla allo sballo e in mezzo non ci sono le loro scelte ma una vita familiare disastrosa e genitori inadeguati, ipso facto, deresponsabilizzandoli. Tutto ciò nascondendo anche a se stesso la consapevolezza che l’uso o l’abuso o comunque l’assunzione della droga lo fa sentire più forte, più coinvolto, più accettato, più… o addirittura l’accettazione di quella che ormai è diventata un’abitudine di cui non si può più fare a meno e senza la quale starebbe peggio.

Per approfondire:
A. Salvini, Dalla culla allo sballo, in Psicologia Contemporanea, N. 161, set.-ott. 2000, pp. 40-47

© Dott. Pasquale Saviano
Psicologo – Psicoterapeuta