FACCIAMO ATTENZIONE ALLE ETICHETTATURE

“Dottore, sono depresso!”, “Sono ansiosa!”. Spesso non ci rendiamo conto di quanto un’etichetta nasconda qualcosa di molto più complesso che caratterizza ognuno di noi. Quante volte usiamo un’etichetta per definire noi stessi o chi ci circonda nella quotidianità? Sono isterico, pazzo, quella persona è altruista, egoista, senza renderci conto che esse possono diventare gabbie per noi e per gli altri. Un’etichetta può andare bene in cucina, dove la distinzione del sale dallo zucchero è importante per la buona riuscita di una pietanza. Ma quanto essa può essere dannosa se ce ne attacchiamo addosso una o la usiamo per caratterizzare chi ci sta vicino condizionando le nostre scelte? Purtroppo non ci rendiamo conto che, come nel caso del barattolo, il contenuto non è il barattolo stesso, infatti nelle nostre relazioni ciò che portiamo dentro, vissuti, emozioni, sentimenti, non sempre é rappresentato da ciò che mostriamo all’esterno.

Ci raccontiamo come persone pigre, creative, loquaci, ansiose, depresse affezionandoci troppo a quelle etichette, confondendo il nostro barattolo con ciò che esso contiene. Esse però ci danno sicurezza perché non ci costringono di continuo a vedere dentro di noi cos’è contenuto. Quante volte poi però ci siamo resi conto che l’etichetta che ci eravamo dati o che ci avevano attribuito non rappresentava realmente ciò che invece portiamo dentro di noi? Affezionati alla nostra etichetta, pensiamo che sia la nostra reale caratterizzazione anche se non ci rispecchia più, portandoci, di fatto, a non mettere in atto il cambiamento. Confondere la nostra etichetta con la nostra identità non ci permette di essere altro, non ci aiuta a metterci in gioco. È necessario rendersi conto che siamo più complessi di una semplice definizione, che ognuno di noi ha una storia alle spalle che lo caratterizza e che difficilmente può essere racchiusa in una semplice parola. Rendiamoci conto che ogni giorno siamo diversi dal precedente, che siamo il risultato dei nostri vissuti, delle nostre esperienze, delle nostre relazioni. Impariamo a scoprirci ogni giorno di più.

Infatti è proprio da qui che spesso partono le etichette: dai vissuti, dalle esperienze, soprattutto con persone che abbiamo etichettato simili a noi. Quando conosciamo una persona spesso ci viene presentata o si presenta con un’etichetta che la caratterizza, ma molto probabilmente il valore che essa darà a quell’attributo non è lo stesso che diamo noi. Facciamo un esempio: etichettare una persona come “buona” può darle molteplici sfaccettature: per alcuni debole, per altri magnanima, per altri santa, o semplice, e cosi via. Nella realtà dei fatti ognuno attribuisce all’etichetta un valore personale e solo focalizzandoci su quella persona potremmo realmente capire chi abbiamo di fronte. Inoltre non bisogna mai dimenticare che l’etichetta ci dice molto della persona che la attribuisce: essa non ci informa su chi è la persona cui è attribuita, ma su chi la sta usando, sia essa usata in prima persona, sia per descrivere qualcun altro. Così come non ci dà il senso dell’etichetta stessa perché noi non siamo “buoni” con tutti allo stesso modo. Ragionare in questi termini porterebbe ad una semplificazione eccessiva appiattendo all’interno delle stesse categorie comuni persone che hanno visioni diverse del mondo.

Il punto non è che utilizzare etichette sia sbagliato, del resto lo facciamo tutti, ma è necessario rendersi conto che esse rappresentano solo un punto di vista macroscopico di chi abbiamo di fronte o di noi stessi, non definiscono chi siamo nella realtà. È sempre utile porci più domande su noi stessi e su chi abbiamo di fronte così da lasciare uno spazio più ampio per avere un’idea di come l’altro dia significato a quell’etichetta ma anche dar voce alla nostra parte interna cercando di capire perché ci siamo affibbiati quell’attributo. Le domande aperte possono essere la migliore risposta all’autentico desiderio di conoscere e comprendere noi stessi e gli altri.

© Dott. Pasquale Saviano
Psicologo – Psicoterapeuta