I pazienti sono dentro un loop: cercano costantemente una soluzione ai loro problemi. Questo è d’altronde il motivo per cui chiedono una consulenza psicologica: vogliono stare meglio superando un blocco, ovvero un problema relazionale, emotivo, psicosomatico, comportamentale. Ma cercare una soluzione, soprattutto quando diventa uno “sforzarsi di trovare una soluzione a tutti i costi”, crea un cortocircuito: le premesse che hanno portato alla formazione di un problema non possono essere le stesse da cui nascerà una soluzione. Detto con le parole di A. Einstein: <<Non possiamo risolvere i problemi con lo stesso tipo di pensiero che abbiamo utilizzato quando li abbiamo creati>>.
Approcciare efficacemente un problema, soprattutto quando si inizia ad operare su esso, significa quindi cambiare le premesse, e un modo per farlo è chiedersi – e chiedere al paziente – non <<Com’è possibile risolvere il problema?>> (domanda che, abbiamo già detto, i pazienti si fanno semmai da anni), ma <<Come peggiorare il problema?>>. Si tratta di una domanda “teorica”, nel senso che non si cercano realmente nuove strategie per far star peggio il paziente; l’obiettivo è invece quello spostare la prospettiva: se il paziente comprenderà a pieno quali sono le strade che fanno peggiorare la sua situazione, per converso avrà strumenti in più per poterla risolvere. Questa domanda costringe insomma a osservare il problema portato in consulenza da una prospettiva non convenzionale: <<Cos’è che peggiorerebbe sicuramente il suo problema?>> (Fisch et al. 1983).
Si presenta in consulenza Claudio, imprenditore, giovane padre di famiglia, un uomo molto capace. Fin da piccolo il suo dialogo interno è veramente ingombrante: passa la maggior parte del suo tempo a pensare, a dibattere tra sé e sé, approfondendo e discettando circa ogni situazione che gli capita, generando così un grande dispendio di energie. Durante il primo colloquio gli chiedo: <<Se lei, per assurdo, volesse peggiorare ulteriormente il suo problema, cosa dovrebbe fare?>>. <<Peggio di così?>>, mi domanda lui. <<Si faccia questa domanda teorica: di ciò che sta facendo cosa potrebbe continuare a fare per essere sicuro di non uscire dalla sua situazione problematica?>>. <<Ok>>, dice, e dopo pochi secondi inizia incalzando: <<Dovrei continuare a chiacchierare nella mia testa tutto il giorno; dovrei continuare ad andare a letto tardi e a rispondere ad e-mail e messaggi whatsapp ogni secondo; dovrei continuare a essere lento nelle decisioni, posticipandole sempre di più; dovrei non ascoltare il mio intuito – le poche volte che l’ho ascoltato ha funzionato benissimo -; dovrei continuare a bistrattare il mio corpo non facendo esercizio fisico e mangiando mentre lavoro; dovrei lasciarmi prendere dall’ansia e passare rapidamente da una faccenda all’altra senza prendere mai una pausa. Devo proseguire?>>. <<Sì>>, gli dico, <<per scritto. Da oggi fino alla prossima volta che ci vediamo, si ponga questa domanda tutte le mattine, e di giorno in giorno allunghi la lista delle sue risposte. La prossima volta ci confronteremo partendo proprio dalle cose che ha scritto. Identificare le strade del sicuro fallimento, dando loro un nome, è già una mezza soluzione>>.
Questa tecnica può essere utilizzata nella fase iniziale di un intervento, ma anche in un momento di impasse della consulenza, come pure alla fine del percorso psicologico. L’obiettivo principale è quello di aiutare il paziente a identificare e bloccare quelle strategie già tentate, e di cui ha già esperienza della loro inefficacia.
Tre esempi di com’è possibile formulare la domanda del “come peggiorare”, presenti in letteratura:
1) Come prescrizione in prima seduta: <<Da qui al prossimo incontro le chiedo, magari dedicando cinque minuti al giorno, di trovare tutte le risposte alla seguente domanda: “Se io volessi volontariamente e deliberatamente peggiorare, invece che migliorare, la mia situazione, che cosa dovrei fare o non fare, dire o non dire, pensare o non pensare?”. Questo richiama la saggezza degli antichi strategemmi nei quali è suggerito che bisogna “storcere di più, per raddrizzare”>> (Nardone e Salvini 2013).
2) Come suggerimento paradossale alla fine di una seduta in cui il paziente resiste a qualsiasi proposta fatta dallo psicologo: <<Se la linea di condotta che lei ha intrapreso è quella giusta, se non ha funzionato fino ad oggi probabilmente è perché non l’ha seguita abbastanza a fondo. Quello che ci vuole è che faccia un ulteriore sforzo, perché forse quello fatto finora non era sufficiente. Personalmente credo proprio che non funzionerà, però forse mi sbaglio. L’unica cosa da fare, per essere sicuri, è provare a insistere di più in quello che lei ha già tentato>> (Fisch et al. 1983).
3) Alla fine del percorso psicologico, per aiutare il paziente a mantenere la rotta, senza riattivare le strategie fallimentari precedentemente già tentate: <<Se lei volesse rovinare tutto ciò che abbiamo fatto insieme cosa dovrebbe fare?>> (Fisch et al. 1983).
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Bernardo Paoli
e i docenti dell’Accademia delle Tecniche Psicologiche
BIBLIOGRAFIA
Fisch, R., Weakland, J.H., Segal, L. (1983). Change. Le tattiche del cambiamento. Roma: Astrolabio
Nardone, G., Salvini, G. (2013). Dizionario internazionale di psicoterapia. Milano: Garzanti
Paoli, B. (2014). Come parla un terapeuta. La ristrutturazione strategica. Milano: Franco Angeli
Rampin, M. (2006). Pensare come un mago. Risolvere problemi con il pensiero illusionistico. Milano: Ponte alle Grazie
Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fish, R. (1974). Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi. Roma: Astrolabio