Conoscere l’impotenza appresa

E’ un sabato qualsiasi, il sole è splendente anche se si avverte un freddo intenso. Oggi c’è il consueto incontro con i ragazzi del volontariato: si va in corsia nei reparti di geriatria dell’ospedale xxx, per ascoltare storie senza tempo che hanno come tema la sofferenza, la speranza o il nulla, a volte. Pronti a partire, badge identificativo, maglietta blu che rappresenta l’associazione e si va.

Tra conversazioni, risate e dialogo con alcuni pazienti, arrivo di fronte alla stanza n.4. Busso, apro appena la porta e, rimanendo sull’uscio, con un sorriso mi presento: “Salve sono un volontario di questo ospedale, sono qui per passare un po’ di tempo con lei, se vuole. Posso entrare?”. La signora M. è una paziente ricoverata da diversi mesi. Affetta da numerose patologie, soffre molto e non riesce a camminare da diverse settimane. I suoi figli le concedono brevi e sporadiche visite. Lei, quasi non mi guarda ma fa cenno di sì stancamente con la testa. Mi invita ad entrare, quindi a sedermi affianco a lei nella stanza avvolta nell’oscurità. Iniziamo così a dialogare. Le braccia di M. sono ricoperte da una miriade di bolle rosse ed è continuamente tormentata da fastidiosissimi pruriti. Ma quello che mi colpisce è il suo viso, sul quale non saprei dire se prevalga un’espressione di sofferenza o di spenta rassegnazione.  La solitudine, il corpo che non “funziona” come lei vorrebbe e che non risponde alle diverse terapie sono un vero strazio. “Non ce la faccio più”. Mi dice con un filo di voce. E vorrebbe piangere, ma la malattia le ha precluso anche questa fondamentale espressione umana, così utile per canalizzare e liberare tensioni, con il suo effetto quasi analgesico. “Ho la sensazione di non essere più padrona di me stessa, mi sento un peso. Oramai mi limito ad osservare per ore il soffitto e sento di non desiderare o volere più nulla. Sono un nulla che si vede vivere senza prospettive di cambiamento. Non ha senso vivere così. Un tempo non avrei mai pensato di arrivare a dire queste cose!”.

Quello con la signora M. è stato, per me, uno degli incontri più toccanti e delicati che io abbia fatto nelle mie giornate di volontariato. Per giorni le parole di M. sono tornate a farmi compagnia e insieme ad esse domande su domande: Cosa sta provando? Come accade che una persona, nel tempo, arrivi all’annichilimento? Cos’è che spegne, nelle persone, giorno per giorno, la forza vitale della vita?

Quello che M. sta sperimentando è, probabilmente, è una forma di impotenza appresa: un sentimento che produce conseguenze a livello cognitivo, motivazionale ed emozionale. Una condizione che porta, nel tempo, ad imparare l’inefficacia delle proprie azioni.

Ma cos’è, nello specifico, questo apprendimento e soprattutto come è stato scoperto?

L’impotenza appresa

Gli studi empirici che hanno reso valida l’ipotesi sull’impotenza appresa sono stati pensati da Martin Seligman e supportati dal collega Steve Maier. Il lavoro condotto dallo studioso voleva dimostrare, attraverso  prove eseguite su dei cani, come l’impotenza si potesse apprendere. Le conclusioni furono veramente interessanti: se i cani potevano imparare qualcosa di così complesso come l’inefficacia delle proprie azioni, ci si poteva aspettare risultati analoghi nello studio dell’impotenza umana. L’impotenza è parte della nostra vita quotidiana: la si può trovare tra gli emarginati della società che vivono in contesti di forte deprivazione socio culturale; ma anche tra i pazienti d’ospedale che, imprigionati in un corpo che va in progressivo disfacimento, soffrono a tal punto da “abbandonare la lotta” chiudendosi in una cupa apatia che li rende incapaci di reagire. Quante volte abbiamo visto persone in questa condizione e ci siamo chiesti: “Perché non reagiscono?”. L’impotenza, in effetti, è una condizione fisica e psicologica alla quale, in genere, non si arriva tramite un solo evento critico, ma attraverso il perpetuarsi di condizioni avverse che, nel tempo, lasciano un senso di vuoto con una grave e complessa consapevolezza: l’apprendimento della propria inefficacia.

L’obiettivo generale dello studio di Seligman fu proprio quello di dimostrare a tutta la comunità scientifica, che ciò che colpiva le persone ospedalizzate, ghettizzate in periferie deprivate, ciò che spezzava la speranza di minori abusati, fosse l’impotenza; e che questa, così come era appresa, poteva allo stesso modo essere disappresa.

Lo studio di Seligman prese il nome di “triadico” perché prevedeva contemporaneamente l’implicazione di tre gruppi di cani. Due gruppi erano sottoposti a delle scosse elettriche (l’intensità della scosse era la stessa di quella che potremmo subire quando tocchiamo il pomello della porta in una giornata di tempo secco); il terzo gruppo, detto “di riposo”, ne era esente.  Nella prima parte dell’esperimento il primo gruppo aveva la possibilità di sfuggire alla scossa: i cani potevano interromperla premendo un pannello con il naso. Proprio per questo si sarebbero trovati in una condizione di controllo dell’evento-scossa. Per quanto riguarda il secondo gruppo di cani, nessun tipo di azione da loro intrapresa poteva interrompere la scossa; questa, come abbiamo visto, era governata dai cani del primo gruppo. Dopo la fase  iniziale dell’esperimento, i cani sarebbero stati portati in un campo diviso in due comparti, separati da una barriera. In questo setting, per sfuggire alla scossa, i soggetti dell’esperimento avrebbero dovuto semplicemente saltare la barriera. L’ipotesi iniziale era che i cani che avevano appreso  l’inefficacia delle proprie azioni per interrompere la scossa non avrebbero fatto nulla per cambiare le cose. Così fu: i cani che avevano sperimentata l’impotenza, nonostante la barriera fosse facilmente scavalcabile, si limitavano ad accovacciarsi mugolando passivamente. I cani del primo e del terzo gruppo, invece, appena avvertivano la scossa saltavano evitando la condizione dolorosa.

La parte forse ancora più interessante dell’esperimento, è che Seligman è riuscito a dimostrare anche la reversibilità dell’impotenza: possiamo imparare ad essere impotenti ma possiamo anche re-imparare a non esserlo. Gli stessi cani, che avevano sperimentato una condizione di impotenza, in una fase successiva dell’esperimento, furono portati ad apprendere nuovi comportamenti di reazione attiva nei confronti di uno stimolo doloroso (saltavano la barriera).

Arrivare alla scoperta e decodifica del modello dell’impotenza appresa è risultato molto interessante ai fini della comprensione di determinati atteggiamenti e comportamenti umani. D’altra parte molto ancora va indagato per comprendere come mai alcuni individui di fronte alle avversità si arrendono facilmente mentre altri riescono a farne fronte efficacemente? Perché alcune persone quando vanno incontro a eventi stressanti e incontrollabili, come la condizione sperimentale dei cani di cui sopra, finiscono per andare incontro ad un tipo di comportamento remissivo e passivo, mentre altre riescono a trovare comunque brillanti e ingegnose vie di uscita?

A partire da queste domande non si è giunti a una risposta univoca: diversi sono gli stili cognitivi e i meccanismi che sottendono alla capacità di reagire positivamente di fronte alle sconfitte. Stiamo parlando dei diversi stili esplicativi e dell’ottimismo, di cui tratteremo nel prossimo articolo.

MARCO DIELLA
CONTATTO LINKEDIN MD

Fonte:

Seligman, M. E. (2011). Learned optimism: How to change your mind and your life.