Luigi è un bambino intelligente, ma disturba in classe e non fa attenzione. Francesca è molto sveglia, purtroppo a casa è svogliata.
Non è questo un espediente per introdurre il tema dei DSA (Disturbi specifici dell’apprendimento) e vi assicuro che non intendo parlare dei benefici del Metilfenidato, né invogliare colossi farmaceutici a fare da sponsor dicendo per esempio quanto il Rubifen sia superiore al Ritalin (cosa peraltro di dominio pubblico –ammicco ammicco).
No, vorrei invece parlare di molti di questi ragazzi “svogliati” a cui a causa di manuali diagnostici poco aggiornati non è stato diagnosticato nulla e si ritrovano loro malgrado nell’età adulta. Persone come voi e me, che si sono sentite dare del “pigro” innumerevoli volte durante la loro infanzia e una volta sfuggiti al severo giudizio genitoriale hanno cominciato a darselo da sé: “Dovrei studiare per l’esame, ma giusto ieri ho scoperto Game of Thrones, quel Ned Stark è il mio personaggio preferito, di sicuro ad Approdo del Re spaccherà tutto. Ancora una puntata!”; “Il mio capo mi ha assegnato a un importante progetto, ma ogni volta che mi ci metto su finisco inevitabilmente a spulciare profili Facebook per capire se sotto degli pseudonimi e foto sfocate ci sono persone che conosco davvero”; “Se non vado in biblioteca non concludo niente, ma sinceramente anche lì prendo qualche pausa-studio da un’intensa attività di consumo di tabacco e caffè”; “Cazzeggio troppo”.
Se vi siete riconosciuti almeno parzialmente in quanto scritto, innanzitutto vi rimando a una serie di strategie utili a portare a casa il risultato. Passo quindi a presentare ciò di cui voglio parlarvi: l’Akrasia.
Akrasia o volontà debole
Akrasia è una parola fascinosa e di origini greche che sintetizza gli esempi da me riportati, rimandando al concetto di “volontà debole”. Essa descrive quella situazione in cui un individuo a fronte della conoscenza di ciò che meglio (Il mio medico mi ha prescritto di fare attività fisica e piantarla coi vizi e io sono d’accordo con lui), agisce comunque in direzione opposta a questa sua conoscenza (oggi però mi hanno invitato a giocare a poker, Gianni porta i cubani e Ale lo scotch).
Il senso comune spiega il fenomeno in maniera caratteriologica: coloro che agiscono contro giudizio vengono etichettati in maniera variopinta a seconda dell’occasione e dell’ambito in cui avviene il fenomeno akratico -un esempio è proprio “pigro”- rimandando comunque sempre a qualcosa di interno alla persona. La stessa cosa faceva Aristotele, preferendo parole come “intemperanza” o “incontinenza” (e tutti noi ringraziamo della svolta semantica che è avvenuta dai suoi tempi). In psicologia le cose diventano più pepate e confuse perché il comportamento intemperante viene visto come un problema di scarsa motivazione: la persona è scarsamente motivata a fare ciò che è meglio per lei ed è più motivata a fare ciò che, per esempio, le dà un piacere immediato. Si ritorna in un certo senso a una spiegazione socratica e sillogistica: per Socrate l’akrasia era un paradosso logico secondo cui la scarsa conoscenza su ciò che è veramente bene è la causa dell’agire male, la malefatta, in quanto se
A: Il Bene è fare X
B: Lo scopo dell’Individuo è perseguire il Bene
C: L’Individuo farà X.
Dunque nei relativistici tempi moderni dove il Bene con la B maiuscola risulta inconoscibile all’essere umano, il paradigma non cambia più di tanto. Esso va soltanto declinato in modo che sia la scarsa motivazione la causa dell’agire male, trattenendoci dal perseguire ciò che è bene (per noi).
Inutile a dirsi, le due spiegazioni non soddisfano chi scrive. La prima è clamorosamente tautologica: si è pigri perché si agisce con pigrizia e allo stesso tempo si agisce con pigrizia perché si è pigri. La seconda, nonostante possa portare a tentativi anche piuttosto interessanti e creativi di “motivare” il prossimo, ha la tendenza a scivolare negli errori personologici della prima: il presupposto rischia di divenire quello per cui il problema sia la carenza di una qualità caratteriale.
Dalla risposta logica alla risposta psico-logica
Ma allora che dire di Luigi e Francesca, i due bambini intemperanti della prima riga? Cosa li condanna e cosa li potrebbe salvare? Ebbene, ci siamo detti che nei relativistici tempi moderni non esiste un’univoca concezione di Bene, ce ne sono diverse e ognuno ha la propria. Ma se ognuno di noi ne avesse più d’una? Se per Francesca in classe fosse Bene ascoltare la maestra e a casa fosse Bene farsi un giro in bici? Se per Luigi a casa fosse Bene leggere romanzi sulla poltrona e a scuola fosse Bene fare il pagliaccio? Forse non è tutto così a comportamenti stagni. Non è che a Roma sono innamorato di Grazia e a Firenze di Sara. Certo è che il mio comportamento sarà guidato anche da chi mi ritrovo in camera da letto. Il tormento che mi causerebbe una situazione del genere, diviso tra due persone amate e costretto a tradirne comunque sempre una per amare l’altra sarebbe snobbato da un mio amico che sposa la filosofia poliamorosa.
Noi tutti tradiamo le nostre intenzioni e siamo tanto i peggiori giudici quanto i migliori avvocati di noi stessi: ci condanniamo e flagelliamo, ma così facendo riusciamo a dare sempre una giustificazione volta a mantenere una parvenza di univocità caratteriale: meglio pigri conclamati e fancazzisti patologici che incoerenti. Cosa dice l’ex professore di chimica con una grave forma di cancro quando comincia a cucinare metanfetamine? “Lo faccio per la mia famiglia”: ed è così.
Ma poi non è più così, o forse non è mai stato così e ha sempre mentito a se stesso e agli altri.
O magari se non fosse occupato a difendersi dalla morale che ha assorbito in tanti anni di corretta cittadinanza potrebbe tranquillamente rispondere che lunedì lo stava facendo per sé e martedì per la sua famiglia.
Approfondimenti: On Acting Against One’s Best Judgement: A Social Constructionist Interpretation for the Akrasia Problem