BAMBINI, LINGUAGGIO E CULTURA

L’apprendimento della lingua nel bambino passa inevitabilmente attraverso una serie di interazioni sociali ed ambientali. Così facendo egli, oltre alla propria “lingua madre”, svilupperà anche una capacità di leggere la realtà partendo dalla propria cultura di riferimento.
Negli anni ’60 il teorico della comunicazione Noam Chomsky partì dal presupposto che non semprecapita di fermarsi a ragionare sulla modalità comunicativa con cui ci si confronta con i bambini che non sanno parlare e ciò ci porta ad interagire con loro con un linguaggio altamente complesso senza pensare al fatto che non hanno ancora imparato a parlare, anche perché posseggono limitate capacità di comprensione. Il bambino, quindi, secondo la visione di Chomsky possedeva una componente innata che lo portava all’acquisizione del linguaggio, così forte da permettergli di superare questi limiti.

In realtà man mano che si è andati avanti nelle ricerche psicologiche si è scoperto che le mamme utilizzano un linguaggio specifico quando si relazionano con i figli tra i 18 ed i 36 mesi caratterizzato da semplicità sintattica, buone regole grammaticali, quasi totale assenza di dialetti, ecc.; insomma un linguaggio diverso da quello usato con gli adulti, cioè semplice, ben formato e ridondante. Questa tipologia di linguaggio ovviamente favorisce l’attenzione del bambino e ciò è importante per la trasmissione delle regole.

È bene però tenere in considerazione le diversità culturali che influenzano gli stili relazionali e quindi la crescita e lo sviluppo psichico del bambino.
Nella cultura occidentale infatti l’input linguistico è centrato sul bambino che viene considerato una partner conversazionale fin da quando nasce, mentre in altre culture diverse da quella occidentale ciò non avviene. In alcune di esse infatti c’è la tendenza a non parlare con i bambini fino a quando non abbiano sviluppato un qualche tipo di linguaggio. La volontà nelle società occidentali è di comunicare col bambino il prima possibile e per questo si adotta nei suoi confronti un registro linguistico semplificato così come si apprezzano e si favoriscono i suoi tentativi linguistici, seppur maldestri.

Nelle società arcaiche che non subiscono l’influenza occidentale non è così, anzi le interazioni linguistiche con i bambini sono ridotte al minimo in quanto considerati esseri di rango inferiore. Capita in tante altre culture non occidentalizzate che l’interazione con i bambini sia limitata o che non tenga conto delle loro limitate capacità linguistiche. Manca cioè un registro linguistico adeguato alle capacità del bambino e che ne favorisca lo sviluppo linguistico, Tuttavia anche questi bambini imparano la lingua materna alla stregua dei bambini occidentali, a dimostrazione del fatto che un input linguistico “centrato sul bambino” non è cruciale per imparare a parlare. Ciò accade similmente anche nelle società rurali occidentali ad economia tradizionale, dove i bambini vivono in famiglie estese ma anche nelle famiglie di classe operaia nelle società industrializzate; cioè uno stile educativo “direttivo” che miri più ad orientare il bambino ed a controllarlo indirizzando le sue attività, invece di favorire un’interazione basata sulla semplificazione del discorso e sull’interesse per ciò che il bambino tenta di fare.
La modalità relazionale linguistica dei genitori occidentali rappresenta indubbiamente una modalità “puerocentrica” di grande rilievo che tiene in considerazione non solo l’aspetto linguistico semplicistico ma anche quello semantico poiché essi interagiscono con i bambini tenendo conto e considerando le situazioni nel “qui-ed-ora” familiari al bambino, cercando di collegarle con le informazioni di cui egli già dispone in una chiave anche di informazioni extra linguistiche. Ciò favorisce da un lato l’accrescimento delle conoscenze attraverso l’aumento delle informazioni, dall’altro il consolidamento e le connessioni con le informazioni già possedute.

L’uso di un vocabolario limitato fa sì che il bambino consolidi sempre più le conoscenze che ha portandole a quello che accade nel momento preciso. Ciò mette in luce un fatto ovvio: le madri più che parlare ai bambini parlano con i bambini, calandosi nella relazione con loro partendo dalle idee e dagli interessi dei figli. Così facendo essa sviluppa uno stile linguistico semanticamente collegato e contingente a ciò che fa o dice il bambino. Anche la tendenza da parte del genitore a rielaborare più o meno correttamente ciò che il bambino ha appena detto in maniera confusa o imprecisa fa sì che egli si trovi in un contesto di linguaggio più simile al suo sentendosi più sicuro e spronato. Quando una madre adatta attentamente le proprie risposte comunicative ai bisogni del bambino arricchendo la comunicazione con descrizioni, dimostrazioni, parafrasi, ecc., lo aiuta a formulare le proprie intenzioni spingendolo ad acquisire abilità più avanzate.

La lingua rappresenta un legame con la cultura di appartenenza pertanto la lingua della comunità in cui vive un bambino è importantissima affinché egli si senta membro di quella cultura. Ovviamente le differenze culturali, come già dimostrato, hanno un forte impatto sullo sviluppo della lingua nei bambini poiché dalle modalità relazionali si avrà un apprendimento più o meno veloce, soprattutto dalle interazioni e dalle modalità di interazione che le madri metteranno in atto. Così come hanno importanza gli esempi, le azioni, le contestualizzazioni. Concludendo: le diverse culture nel mondo hanno modalità differenti di interagire con i bambini, ciò però non influisce sulla facilità e sulla rapidità con cui i bambini imparano a parlare anche tra culture diverse ed assai distanti.

La lingua riflette indubbiamente la cultura alla quale è legata e per questo, imparando una determinata lingua, il bambino impara anche la cultura legata e trasmessa da quella lingua nonché la capacità di leggere la realtà in un certo modo.

Per approfondire:
L. Camioni “Culture diverse, lingue diverse: il bambino impara a parlare” in Psicologia Contemporanea, Gen-Feb 2000, 157, Giunti, pp. 40-48

© Dott. Pasquale Saviano
Psicologo – Psicoterapeuta