AUTOLESIONISMO: CARATTERISTICHE, CAUSE E MODALITÀ DI GESTIONE

Il comportamento autolesivo sta crescendo, soprattutto tra gli adolescenti. Bruciarsi o tagliarsi rappresenta una pratica che spesso nasconde patologie più gravi.
Molti ragazzi/e in piena età adolescenziale fanno fronte ad angosce e frustrazioni in modo estremamente dannoso, senza chiedere aiuto ma riversando sulla rete, nei famosi siti dedicati al self-injurious behaviour il loro malessere. Un fenomeno in grande espansione, soprattutto oltreoceano, di cui però non esistono dati certi. Negli anni l’argomento è stato totalmente escluso al pubblico e, sebbene oggi qualcosa sia cambiato, esiste ancora uno stigma totale verso questo comportamento.

Tale comportamento molto spesso rimane confinato nelle mura domestiche. Quando scoprono comportamenti autolesivi dei propri figli, i genitori vivono con un senso di vergogna la cosa, tanto che spesso la nascondono, evitando anche il contatto con uno specialista per paura di essere considerati pazzi o sentirsi giudicati come cattivi genitori.
Da parte dell’adolescente c’è la tendenza ad occultare i segni, vivendo un rapporto intimo e quasi simbiotico con questa modalità comportamentale; sono pochi quelli che ostentano cicatrici e ferite come trofei. Il fenomeno si rileva perlopiù nelle adolescenti, intorno ai 13 anni con un abbassamento dell’età ed è legato a fasce economiche medio-alte.

La definizione del comportamento autolesivo più accettata (o SIB: Self Injurious Behaviour) è: “azioni intenzionali, ripetute, a bassa letalità che alterano o danneggiano il tessuto corporeo senza alcun intento suicida cosciente”. Le modalità che caratterizzano questo comportamento sono quattro:
– il self-poisoning (autoavvelenamento), in cui rientrano i comportamenti di overdose da farmaci o sostanze tossiche, un comportamento simile a quello suicidario;
– l’auto-mutilazione spesso a base psicotica, un comportamento legato alla schizofrenia in cui poca è la consapevolezza del proprio corpo, così come manca la coscienza della malattia stessa;
– il self-harming (autodanneggiamento) che comprende le condotte a rischio, tutti quei comportamenti, cioè, che hanno indirettamente effetti dannosi sulla salute (gioco d’azzardo, condotte pericolose alla guida, abuso di droghe ed alcol);
– il self-injurious behaviour, il comportamento più frequente e più nascosto, che implica il tagliarsi, bruciarsi ed autoprodursi lesioni in altri modi attraverso l’uso degli oggetti più comuni su parti del corpo ben definite, braccia e gambe ma anche addome.

Le cause sono le più disparate. Alcuni cominciano a ferirsi a causa di una perdita affettiva importante, un abbandono che a volte può essere reale o vissuto solo a livello intimo. Il malessere è corredato anche da solitudine, sensazione di vuoto, senso di colpa ed impotenza. Il sollievo, solo temporaneo, avviene dopo essersi tagliate e si manterrà finché una sensazione negativa si riproporrà alla mente dell’adolescente, in una sorta di dipendenza. Per altri invece c’è un’assoluta alienazione rispetto al proprio corpo che li porta a ferirsi per sentirsi vivi; la vista del sangue li porta a vedersi come “esseri reali”, la loro sofferenza è un’affermazione di esistenza. Per alcuni invece l’autoferimento è una valvola di sfogo; l’unica strada attraverso cui espellere le sensazioni negative che sentono avere dentro è questa.

Ancora oggi cosa succeda a livello cerebrale durante questi comportamenti non è risaputo, né si conosce quale sia l’impulso che scatena l’autoferimento. Gli studi hanno però dimostrato che chi soffre di autolesionismo presenta episodi di eccitabilità della corteccia simili a quelli che si verificano durante gli attacchi epilettici, impulsi che però si “allargano” a varie regioni cerebrali. È proprio la somiglianza tra le due patologie che permette il trattamento con successo delle forme impulsive di autolesionismo.

Il tentativo di chi mette in atto un comportamento autolesivo per cercare attraverso il dolore fisico un sollievo ad un male di vivere più grande porta queste persone ad entrare in un circolo vizioso di ossessioni e rituali compulsivi o stereotipici dal quale diventa difficile uscire. Col tempo l’impulso può diventare una vera e propria dipendenza in cui la causa scatenante del primo episodio può entrare in secondo piano. La compulsione a ripetere entra a far parte di un rito che può ripetersi più volte al giorno perché autoferirsi diviene un pensiero ossessivo che va messo in atto attraverso il comportamento, più forte nei momenti di stress. La ritualità spesso consiste nel “preparare” l’atto, magari segnando con un pennarello il punto da incidere, bruciare o tagliare e disinfettante gli strumenti da utilizzare.

Nel caso delle stereotipie legate perlopiù a gravi ritardi mentali o all’autismo si attuano comportamenti violenti verso se stessi, come grattarsi fino ad asportare porzioni di pelle, strapparsi ciocche di capelli o battere la testa contro il muro; comportamenti che vengono messi in atto anche in pubblico e che sono ascrivibili al tentativo di ridurre lo stress dovuto alla sindrome.
L’esperienza dell’autoferirsi viene spesso vissuta come altro da sé. Difficilmente si passa da un comportamento ad un altro (dalla bruciatura al taglio ad esempio). Il tutto viene racchiuso in una cornice di isolamento e difficilmente si pubblicizza il comportamento o il risultato di esso.

I disturbi associati all’autolesionismo sono diversi: tra questi ritroviamo il disturbo borderline di personalità che caratterizza soggetti incapaci di sviluppare e mantenere relazioni stabili sia amicali che di amore. I soggetti borderline riescono a sviluppare solo raramente rapporti che però sono destinati a fallire o che diventeranno in breve tempo emotivamente distruttivi per gli altri.
Un’altra patologia che fa da sfondo all’autolesionismo è legata ai disturbi del comportamento alimentare, il più frequente trai quali è la bulimia anch’essa tipica dell’adolescenza. In questo caso ritroviamo comportamenti impulsivi legati a cleptomania, tendenze suicidarie, abuso di sostanze e disinibizione dei comportamenti sessuali, spesso legati a forme di abuso subite in età infantile. Infatti ferirsi rappresenta un tentativo di attirare l’attenzione di qualcuno sulla propria sofferenza, come nel caso di abusi subiti in famiglia da parte di un genitore verso il quale si genera ostilità, ma anche odio nei confronti dell’altro genitore che non ha impedito che ciò accadesse. Questo può far nascere comportamenti volti ad attirare la sua attenzione.

All’autolesionismo è anche associata, in molti casi, l’Alessitimia cioè l’incapacità di esprimere emozioni; sono proprio i sentimenti di rabbia che non vengono espressi a generare condotte autolesionistiche. Un profondo bisogno di chiedere aiuto o manifestare un disagio che viene impedito perché incapaci di trovare una via di comunicazione adeguata. Si tratta di una forma di relazione distorta che da un lato li spinge a richiamare l’attenzione di qualcuno molto vicino a loro e dall’altro glielo impedisce facendoli sentire ignorati. A ciò si associano sentimenti di autosvalutazione, bassa autostima, ostilità verso se stessi, senso di vuoto interiore.

Da quanto detto la situazione risulta complessa e non sempre facile da gestire. Per questo anche l’approccio terapeutico deve essere molto cauto. Nel caso di autolesionismo legato al disturbo schizofrenico e quindi con presenza di automutilazione il lavoro va fatto in modo primario sul disturbo schizofrenico con l’ausilio dei farmaci; in associazione alla terapia farmacologica la psicoterapia familiare sembra essere la strada migliore da percorrere. Di fronte ad un comportamento autolesionistico di tipo impulsivo ci si serve di una terapia farmacologica basata su molecole in grado di modulare l’umore, ad esempio gli antiepilettici che riducono o eliminano i picchi di comportamento impulsivo, in aggiunta, una psicoterapia volta a favorire la scoperta di traumi infantili è altamente consigliata. Quando si ha a che fare con comportamenti compulsivi si adoperano farmaci antidepressivi e psicoterapia.

In tutti i casi è comunque necessario agire sul contesto familiare soprattutto se si riesce ad identificare il disturbo per tempo. Le campagne di sensibilizzazione sono importanti proprio per favorire il contatto con uno specialista ed evitare che lo stigma generi la paura di chiedere aiuto.

© Dott. Pasquale Saviano
Psicologo – Psicoterapeuta

 

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