Amore è tutto ciò si può ancora tradire

Tra le varie “esperienze” che un essere umano può portare a maturazione nel corso della sua esistenza, quella del tradimento è di certo una delle più significative e dolorose. Parlo di tradimento in senso lato. Ovvero sia di “tradimento subito” (immaginiamo una persona di cui ci fidiamo ciecamente che svela un nostro segreto), che di “tradimento consumato” (come, ad esempio, il tradimento sentimentale del proprio partner). Quale che sia il caso in questione, se diretto o indiretto, sembra che tradire sia una pratica vecchia come la storia dell’uomo. Soprattutto sembra che l’uomo si sia sempre “destreggiato” nel dispensare piccoli o grandi tradimenti. Riuscendo nel non arduo compito di “tradire” la maggior parte delle sfere sociali cui il tradimento stesso poteva essere applicato.

Nella “Divina Commedia”, Dante dedica gli ultimi canti dell’Inferno proprio ai traditori, relegandoli nel Cocito: un lago ghiacciato suddiviso in quattro zone circolari concentriche le quali, a seconda della gravità del tradimento (nell’ordine: traditori dei parenti, traditori della patria, traditori degli ospiti e traditori dei propri maestri o benefattori), portano direttamente a «lo ‘mperador del doloroso regno». Quel Lucifero che, con le sue bocche, mastica continuamente i tre “sommi traditori”: Giuda Iscariota (traditore di Gesù), Cassio e Bruto (traditori di Cesare). L’immagine di un traditore che, a sua volta, mastica altri traditore è, a ben pensarci, un’immagine decisamente descrittiva per quanto concerne la pratica del tradimento in sé. Una volta consumata tale azione, il corpo sembrerebbe essere così corrotto da non potervi più rinunciare.

Senza scendere nell’analisi dell’architettura dantesca è interessante sottolineare come, a discapito di crimini ben più efferati, proprio i traditori siano coloro che vengono maggiormente sprofondati nei meandri infernali. Quasi a configurare il tradimento come azione dal più alto tasso di infamia e turpitudine dello spettro delle azioni umane. In tal caso, per una maggiore comprensione del fenomeno, è l’analisi etimologica del verbo “tradire” a venirci incontro. Spiegandoci perché il tradimento sia così considerato. Tradire deriva infatti dal latino tràdere, che significa “consegnare”, “mettere in mano”. Per estensione, quindi, dalla pratica di consegnare al nemico qualcuno o qualcosa verso cui si aveva il dovere morale di prestare difesa e protezione, si è passati al concetto di non rispettare un patto o un legame morale o sentimentale. Azione che, con le dovute proporzioni, ha portato all’immagine di consegnare (tràdere) la fiducia che ci veniva riposta, nelle grinfie di un nemico figurato. Curioso, a tal proposito, notare come il concetto di tradire (dalla sua valenza iniziale, la quale presupponeva la consegna di qualcosa di “fisico” in nostro possesso) sia poi passato alla consegna di un “possesso ideologico”: il possesso della fiducia, il possesso di un sentimento, il possesso di una confessione.

Domandarci quanto e se davvero si possa possedere qualcosa di volatile ed effimero come i concetti di cui sopra finirebbe con l’essere l’ennesima tautologia. Ripetere che nessuno possiede alcunché se non se stesso (e, di conseguenza, la propria morale) è qualcosa che occorre sempre ricordare. Ecco perché il tradimento è diventato un grande specchio entro il quale vedere noi stessi e, allo stesso tempo, prendere le misure con tutte le nostre debolezze e imperfezioni. O, al tempo stesso, per trarre insegnamento dalle debolezze o imperfezioni delle persone che ci stanno accanto. Umberto Galimberti, analizzando il concetto di tradimento e rapportandolo all’immagine di Cristo che si consegna a Giuda per incontrare il suo stesso destino, sottolinea come «niente impedisce di dire a tutti coloro che si sentono traditi che forse un giorno hanno scelto chi li avrebbe traditi per poter incontrare se stessi». Ribaltando in chiave decisamente “costruttiva” un’esperienza traumatica come quella del tradimento stesso. In fondo, “tradire il tradimento” potrebbe essere una nuova e innovativa chiave di lettura: consegnare a chi ha tradito la nostra fiducia una nuova e accresciuta consapevolezza di noi stessi è forse l’azione più propositiva che l’esperienza del tradimento possa consentire. Traditori di tutti come Scerbanenco, tranne che di noi stessi

Per cercare di acclimatarci in un mondo che ci vede tutti, alternativamente, traditori e traditi, ecco alcuni notevoli (e storici) esempi.

Tradire - Efialte

– Efialte di Trachis (VI sec a.c.-480 a.c.): Efialte fu un pastore greco che, nel corso della battaglia delle Termopili (480 a.c.), guidò le truppe persiane attraverso uno stretto e angusto sentiero di montagna affinché potessero cogliere alle spalle le truppe spartane guidate da Leonida. Come molti altri, il tradimento di Efialte si consumò per ragioni prettamente economiche. Il pastore, infatti, vendette la vita dei trecento spartani e del loro condottiero Leonida in cambio degli agi e delle ricchezze promessegli da Serse, il re dei Persiani. La fortuna, però, non gli arrise: con la sconfitta persiana a Salamina, l’aiuto di Efialte venne notevolmente ridimensionato, tanto che si può affermare con certezza che il tradimento non lo portò a nessun guadagno immediato. Tutt’altro: sulla sua testa venne posta una taglia, evidenza che costrinse Efialte a riparare in Tessaglia. Nemmeno la Tessaglia, però, si rivelò un buon rifugio. Caduto nelle mani di Atenade di Trachis venne catturato e giustiziato. Gli spartani, a differenza di Serse, ricompensarono lautamente l’assassino del traditore. Nonostante Erodoto non faccia cenno ad alcuna sua caratteristica fisica, fedele al principio del “buono e bello” (e, di contro, brutto e cattivo) Frank Miller nella sua graphic novel “300” rappresenta Efialte come un uomo storpio e deforme. La storia insegnerà che, spesso, l’aspetto dei traditori è tutt’altro che sgradevole.

 

Tradire - Pizarro

– Francisco Pizarro (1475 – 1541): dopo una prima parte di vita “raminga” scandita dalla ricerca di denaro e potere, resosi conto che i suoi piani erano lungi dall’avverarsi, il soldato Francisco Pizarro ottenne dalla Corona spagnola l’autorizzazione di formare un proprio esercito e partire alla ventura nell’America del Sud. Sbarcato nelle Americhe nel gennaio del 1531, l’esercito di Pizarro (circa 250 uomini) si diresse alla volta dell’impero Inca, il quale viveva un periodo di lotte intestine tra il sovrano di Quito Atahualpa e quello di Cuzco Huascar. Pizarro si dimostrò attendista, promettendo a entrambi i suoi servigi nell’attesa di capire quale sarebbe stato il cavallo vincente cui legarsi. Atahualpa finì, però, con il prevalere sul fratello evitando così a Pizarro l’incombenza di tale scelta. Per dovere d’ospitalità (e convinto del potere del suo numeroso esercito) Atahualpa acconsentì a incontrare il comandante Pizarro nel suo palazzo di Cajamarca, permettendo alle truppe spagnole di penetrare nei suoi terreni senza subire alcuna perdita o restrizione. Una volta giunto nel palazzo, però, Pizzarro scatenò l’offensiva contro gli Inca i quali, nonostante fossero in un’impressionante superiorità numerica (30000 soldati contro i poco più di 200 spagnoli), vennero soverchiati dalle armi da fuoco di questi ultimi. Non pago della vittoria, Pizarro catturò lo stesso sovrano Inca, promettendo di liberarlo in cambio di un sontuoso riscatto, consistente in un quantitativo d’oro pari a quanto potesse contenerne la stanza in cui era rinchiuso. I sudditi di Atahualpa raccolsero tale somma, spogliando i loro templi di tutto l’oro possibile. Inutile dire che, per Pizarro, ciò non fu sufficiente. A discapito della parola data e del riscatto racimolato, Atahualpa venne giustiziato davanti a moglie e figli nella piazza di Cajamarca. La sua conversione forzata al cattolicesimo (in un assurdo susseguirsi di “tradimenti” più o meno volontari) gli fece guadagnare la pena della garrota invece del “solito” rogo spettante agli infedeli. Depredato, convertito, trucidato: ad Athaualpa mal colse l’ospitalità.

Tradire - Iago

– Iago (XVII sec.): nonostante Iago (l’antagonista di Otello nell’omonima tragedia shakespeariana) sia un personaggio di finzione e nonostante la tragedia venga spesso ricondotta principalmente al tema della gelosia, non va dimenticato che il tradimento (o meglio, i tradimenti, consumati o presunti) hanno una grande componente in tale opera. Iago sfrutta infatti la gelosia di Otello nei confronti della moglie Desdemona per spingerlo a liberarsi tanto di quest’ultima quanto dello scomodo (ma leale) luogotenente Cassio. L’ambizione di Iago è quella di “sostituirsi” a Otello sia nell’ambito sentimentale (Iago desidera Desdemona) sia in quello militare (Iago desidera il ruolo di comandante a discapito di Cassio) e, per fare ciò, non esita a tradire la fiducia di Otello utilizzando vili sotterfugi per spingerlo tra le bracci della terribile gelosia che lo consumerà. L’aspetto curioso (e innovativo) della tragedia di Shakespeare (un vero e proprio “elogio al tradimento”) si trova proprio nel principio di sovversione dei più comuni canoni teatrali dell’epoca. Otello, il protagonista, è un moro le cui azioni vengono spinte alla turpitudine da Iago, un bianco, il quale si rivela essere il primo dei traditori. Mettendo in scena questa sequenza di tradimenti presunti (Cassio, Desdemona) e consumati (Iago), Shakespeare tradisce la stessa tradizione teatrale, consegnandoci (tràdere) un capolavoro che da secoli ci spinge a riflettere sul valore stesso del tradimento.

Tradire - Mir Jafar Mir Miran

– Mir Jafar (1691-1765): se il tuo soprannome sia in Hindi che in Urdu (le due principali lingue indiane) è “Traditore della vera Fede” vuol dire che devi averla fatta davvero grossa. Mir Jafar fu il primo Nababbo del Bengala sotto il protettorato della Compagnia delle Indie Orientali, ruolo che gli venne offerto dopo aver aiutato concretamente (e foraggiato economicamente) gli inglesi nel loro tentativo di colonizzare l’India a discapito dei francesi. Jafar pagò circa 17 milioni di rupie agli inglesi, chiedendo soltanto in cambio il titolo di Nababbo dello stato fantoccio del Bengala. Titolo che gli inglesi furono ben lieti di concedergli. Il culmine del tradimento di Mir Jafar si consumò nel corso della battaglia di Plassey (23 giugno 1757), quando decise di far ritirare nel bel mezzo della lotta (come da accordi presi con il comandante inglese Robert Clive) i suoi 45000 uomini, lasciando così il resto delle truppe franco-indiane alla mercé dei cannoneggiamenti inglesi. Se con l’appoggio di Mir Jafar l’esercito franco-indiano poteva contare su circa 60000 effettivi, ritiratesi le sue truppe i restanti 15000 uomini vennero letteralmente decimati, a fronte di soli 23 morti inglesi. Instaurato il protettorato inglese sull’India, Mir Jafar divenne finalmente Nababbo del Bengala. La fedeltà, però, non era il suo forte: nemmeno un anno dopo fu scoperto nel tentativo di prendere accordi con gli olandesi a discapito dell’esercito inglese. Destituito del potere, Mir Jafar lo riconquistò nel corso di alcuni anni, permettendosi il lusso di morire nel 1765 da Nababbo (del Bengala) in carica. A differenza di molti suoi illustri predecessori, Mir Jafar non solo tradì, bensì pagò anche per farlo.

Tradire - James Brothers

– Robert Ford (1862-1892): nonostante a molti il nome Robert Ford non dica nulla, negli Stati Uniti tale nome ha un preciso significato: “traditore”. Ford, infatti, fu colui che il 3 aprile del 1882 uccise Jesse James, probabilmente il più famoso e famigerato bandito dell’epoca. Di per sé un fatto del genere, nell’epopea del selvaggio west, non sarebbe poi un evento così particolare: fuorilegge e cacciatori di taglie si fronteggiavano quotidianamente, risolvendo le loro questioni con fucili e pistole. Il caso di Ford, però, fu molto più curioso: entrato nella banda di James nella primavera del 1882 assieme al fratello Charlie, Robert aveva subito messo nella lista delle priorità la taglia di 10000 dollari promessa dal governatore del Missouri Thomas T. Crittenden a chi gli avesse consegnato il corpo di Jesse James. James, tuttavia, si fidava dei fratelli Ford, tanto da ospitarli a casa sua e lasciare che la moglie cucinasse anche per loro. Questo, però, non distrasse Ford dal suo intento. Il 3 aprile del 1882, appena dopo colazione, Jesse James appoggiò i suoi revolver su un divano e salì su una sedia per sistemare un quadro appeso alla parete. Ford non si sfece sfuggire l’occasione: sparò, così, a un disarmato Jesse James uccidendolo sul colpo, approfittando del fatto che il bandito fosse di spalle. Anche nel selvaggio west un atto del genere non poteva non essere recepito come un tradimento infamante. Dei 10000 dollari promessi da Crittenden, Ford ne vide appena 500, ricevette però il “perdono” per tutti gli omicidi commessi fino a quel momento. Incluso quello di James. Ford cercò di trarre vantaggio economico dalla sua fama di “assassino di Jesse James”: posò per fotografie a pagamento e portò in giro uno spettacolo, assieme al fratello Charlie, basato sul suo stesso tradimento. Non durò a lungo: dopo un decennio di imprese economiche fallimentari, mentre si trovava nel suo saloon, Ford venne raggiunto da Edward O’Kelley, il quale prima lo salutò, poi lo colpì al collo con una fucilata, uccidendolo sul colpo. Le cause di tale gesto non furono mai spiegata da O’Kelley il quale divenne “l’uomo che uccise l’uomo che aveva ucciso Jesse James”. Per lo meno, senza infamia o tradimento.

Tradire - Aldrich Ames

– Aldrich Ames (1941-…): la storia di Aldrich Ames, l’uomo che vendette i segreti della CIA al KGB, sarebbe degna di un romanzo o di un film di spionaggio; peccato che, alla luce dei fatti, sia una storia reale, costata tanto la vita a numerose persone quanto la credibilità all’intelligence di una delle superpotenze mondiali. Dopo un blando inizio come dipendente della CIA, Ames iniziò a reclutare agenti russi da infiltrare nell’URSS. Tale pratica, però, non doveva essere molto remunerativa visto che, a metà degli anni ’80, Ames non esitò a recarsi all’ambasciata russa a Washington per vendere letteralmente i propri segreti ai Sovietici. Ames non aveva alcuna affinità ideologica con l’URSS, semplicemente voleva ricavare dal suo tradimento quanto più denaro possibile. Si calcola che ricevette dal KGB circa 2,5 milioni di dollari, che utilizzò per mantenere uno stile di vita faraonico (ed estremamente alcolico) assieme alla moglie di origini colombiane Rosario. Il tradimento di Ames costò alla CIA la quasi totale distruzione della rete di spionaggio nell’URSS, nonché la morte di una decina di talpe, riconosciute e giustiziate dal KGB. Ossessionati dalla fuga di notizie, dopo un decennio abbondante di tentativi infruttuosi, i vertici della CIA si rivolsero all’FBI (in precedenza tentarono anche la carta della Stasi: l’agenzia di controspionaggio della Germania dell’Est), il quale non tardò a riconoscere in Ames la “talpa” dei Sovietici. Catturato il 21 febbraio del 1994 alla vigilia di un viaggio a Mosca (luogo dal quale, con ogni probabilità, la “talpa” non avrebbe più fatto ritorno), Ames ammise le sue colpe e vide mutare la pena di morte per alto tradimento in ergastolo. Attualmente sta scontando la sua pena nel carcere di Allenwood, nella Pennsylvania. La moglie, condannata a cinque anni per spionaggio ed evasione fiscale, sta con ogni probabilità godendosi i soldi del marito in qualche paese del Sud America.

Da questi “storici” esempi di traditori possiamo notare come i tradimenti più sentiti e dolorosi siano quelli già descritti da Dante. Ovvero i tradimenti nei confronti della patria, dei parenti, degli ospiti e dei benefattori o maestri. Curiosamente, nell’iniziare a scrivere questo articolo, pensavo che avrei dato molto più spazio ai tradimenti di carattere sessuale o sentimentale. Salvo poi accorgermi che, tanto nell’ambito storico quanto in quello sociale, questo tipo di tradimenti assumono uno spazio e un’importanza decisamente minore se rapportati ai tradimenti di cui sopra.

Ho riflettuto a lungo sul perché tali eventi, per altro antichi come la storia dell’uomo, non trovassero uno spazio preponderante nell’ambito storico. Venendo spesso derubricati a banali “incidenti di percorso”, non troppo dissimili da una sbronza di troppo o da una caduta di stile. Ho cercato la risposta nell’antropologia, riflettendo su come il tradimento di carattere sentimentale/sessuale sia alla base della diversità e varietà della nostra società. Aspetto che ci ha portati a quel melting-pot che è una delle più grandi risorse della modernità. In realtà credo che nemmeno l’antropologia sia sufficiente a spiegare tale aspetto. La possibilità di tradire è insita nella natura umana proprio perché fa parte tanto di un insieme di debolezze costitutive dell’uomo stesso, quanto più di un percorso formativo. Un percorso formativo che, vedendoci all’occorrenza vittime o carnefici, porta alla nostra crescita come individui consapevoli tanto del dolore inflitto quanto del dolore patito. Pronti a intraprendere quel percorso di crescita di cui parlava Galimberti quando, riprendendo l’avvicinarsi di Gesù a Giuda, ne sottolineava tanto la consapevolezza quanto la “rinascita” successiva. Consapevolezza del tradimento. Rinascita dal tradimento.

Nel pensare al tradimento mi è sempre venuta in mente una citazione del fumettista Andrea Pazienza. Una citazione che, nei miei ricordi, suonava così: “amore è tutto ciò che si può ancora tradire”. Trovavo questa citazione particolarmente adatta a concludere questa breve riflessione sul tradimento. Mi colpiva la duplice natura assertiva/concessiva sul rapporto tra amore e tradimento. Da un lato sembrava che Paz, quasi consapevole delle punizioni o anatemi spettanti ai “grandi traditori danteschi”, derubricasse la possibilità di tradire alla sola sfera amorosa. Dall’altro, con sguardo più disincantato, sembrava avvisare tutti noi che il tradimento in amore fosse un aspetto fondante. Quasi una parte inestricabile. Da gran traditore (e poi tradito) Pazienza era la persona più adatta a esplicitare con credibilità tale concetto. Ho quindi cercato con cura la citazione in questione, trovandola nell’incipit di una delle suo storie più belle, “Lupi”. Eccola qui:

Tradire - Paz

Con stupore mi sono accorto che ricordavo male la citazione in questione. Non perché ne avessi travisato il senso, semplicemente perché avevo aggiunto un “che” di troppo. La citazione di Paz, infatti, era questa: “amore è tutto ciò si può ancora tradire”. Mi sono scervellato a lungo se quel “che” mancante fosse stato un lapsus dell’autore o altro. Poi, semplicemente, mi sono arreso all’ovvietà: quel “che” era il mio “che”. La mia personale lettura di quella frase. Ho, quindi, cercato di giocare con la citazione di Pazienza, aggiungendo virgole, punti esclamativi, punti di domanda, e via così: in un’infinita possibilità combinativa che, a ogni (minima) modifica, cambiava completamente senso. Dando di volta in volta più importanza a uno o all’altro dei due fattori: amore e tradimento.

Forse non sbagliavo a credere “conclusiva” la citazione di Pazienza. Sbagliavo a credere che fosse la “mia” lettura della stessa a esserlo. La mia lettura con aggiunta di un “che”. Un “che” di troppo. Perché ognuno di noi ha la propria interpretazione dell’amore. E, al tempo stesso, la propria interpretazione del tradimento.

Amore è tutto ciò si può ancora tradire.

Ora sta a voi aggiungere il resto: virgole, punti di domanda, punti esclamativi, puntini di sospensione.

La frase che ne uscirà parlerà di voi più di quanto possiate immaginare..