L’ARTE DI EMOZIONARSI: dallo psicodramma alla cinematerapia

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La psicologia è una scienza in continua evoluzione, e come tale, si adatta alle esigenze del tempo in cui è chiamata a “prestare soccorso”.

Ciò comporta il ricorso a strumenti sempre più aggiornati, e, volendo rimanere in tema di emozioni, tra gli strumenti, o per meglio dire, le “arti” di cui si avvale come supporto terapeutico, figurano il teatro ed il cinema.

E grazie rispettivamente allo psicodramma ed alla cinematerapia, i pazienti possono (ri)stabilire un contatto con le proprie emozioni in un processo di catarsi.

Nonostante, ad un primo impatto, possa sembrare che la prima tecnica consenta una partecipazione più “attiva” rispetto alla seconda, in realtà entrambe sortiscono gli stessi (o quasi) effetti benefici.

Lo psicodramma

Lo psicodramma nasce negli anni Venti grazie a Jacob Levy Moreno, il quale mise a punto questa tecnica di psicoterapia di gruppo ispirata al teatro, per far sì che i partecipanti potessero sfogare ed esprimere la propria creatività e spontaneità attraverso la proiezione dei propri stati d’animo nel dramma a cui prendevano parte.

Nello psicodramma moderno, a differenza di quello classico, prevale l’impostazione psicoanalitica e consiste nell’inscenare l’interpretazione dell’immaginario del paziente-protagonista sul piano simbolico.

Permette pertanto di (ri)sperimentare delle situazioni piuttosto che di raccontarle.

Per Moreno, l’estensione dello psicodramma è il “film terapeutico”, da noi oggi conosciuto come “cinematerapia”.

Il cinema, per Freud, costituisce un regno intermedio tra la realtà che frustra i desideri ed il mondo che li appaga.

E’ una sorta di dimensione onirica, di sogno ad occhi aperti.

Ed è qui che accade la magia.

A contatto con lo schermo, il pubblico passa progressivamente da una fase passiva ad una attiva; non “subisce” le storie dei personaggi in scena, ma le rende proprie. Ricrea nella propria mente le situazioni, gli intrecci ed attribuisce loro un significato, un senso.

 

La cinematarapia

La cinematerapia contribuisce a rivedere se stessi e la propria emotività.

Contribuisce a mettersi in discussione.

Consente di creare uno spazio che permette di riconoscere le emozioni. Di individuarle, farle proprie e dar loro un nome. Di identificarsi coi personaggi di una storia, di interagire con loro, di emozionarsi con ed attraverso di loro. Permette di perdersi e coinvolgersi in una storia, in una storia ed una vita sì diverse dalla propria, magari surreali, ma proprio per questo così vivide e sensazionali.

E non c’è un genere che prevalga sugli altri. Perché ciascuno tira fuori le singole sfumature con cui siamo in grado di esprimerci.
Ed allora accade che questa tecnica, ancora poco conosciuta in Italia, diventi a poco a poco realtà.

Come al Policlinico Agostino Gemelli di Roma, la prima struttura sanitaria italiana che, in collaborazione con l’onlus MediCinema Italia, per cui il regista Premio Oscar Giuseppe Tornatore ha realizzato lo spot “Il Film Come Terapia“, ospita una sala cinematografica dedicata a questo approccio terapeutico.

Perché il tempo di un film, possa essere una pausa dai tormenti e dal dolore, per i pazienti in degenza.

Perché possa essere balsamo per le ferite emotive di chi, già usufruisce del trattamento psicoterapeutico, ma grazie a questa tecnica, può progredire sensibilmente verso il ripristino del proprio benessere psico-emotivo.

La cinematerapia consente di liberare le proprie sensazioni, di lasciarsi andare.

Di rielaborare tutto secondo nuove prospettive, nuove angolazioni.

Perché in fondo, osservare qualcuno che si emoziona, come dimostra l’esistenza dei neuroni specchio, ci induce ad emozionarci a nostra volta. E’ un dato di fatto, ma è anche un punto di partenza fondamentale che comporta la presa di consapevolezza dell’importanza dell’arte nella vita quotidiana, dell’importanza delle emozioni per tornare a vivere.

Perché di questo si tratta.

Un film, per quanto romanzato, consente il dispiegarsi dell’uso di metafore, di poesia, di pensieri e desideri repressi.

E allora le immagini si prestano a raccontare, e raccontano di noi.

E noi lasciamo che ci conducano in nuove dimensioni, in cui stranamente non abbiamo più paura di perderci. Come in un sogno. In cui possiamo dar sfogo ai nostri desideri repressi o forse inconfessabili, ma soprattutto in cui siamo liberi di credere che tutto sia possibile.

Perché “non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima” (Ingrid Bergman.)

Ed allora non resta che emozionarsi.

Magari davanti ad un bel film.