Raggiungere la felicità e il benessere attraverso la solitudine, considerandola “un campo lasciato a maggese”.
L’idea di restare soli e di non aver nessuno con cui condividere le proprie emozioni, momenti, vita a volte ci crea sconforto e disagio. Non è facile vivere in solitudine o affrontare la vita contando sulle proprie forze, soprattutto se non abbiamo personalmente ricercato la solitudine ma ci si è semplicemente catapultata addosso, senza averla richiesta e ricercata.
L’uomo è un animale sociale, ma per vivere bene con gli altri ha bisogno di imparare a vivere da solo. Per cui prima di credere negli altri, cosa assolutamente necessaria per rendere la propria vita ricca di significato e non incatenata nei propri limiti, bisogna dare una chance a sé stessi per rendersi strumento di creazione di opportunità. La solitudine stessa è un’opportunità proprio perché aiuta a lavorare su di sé: spesso quando diventa strumento di conquista della propria vita le cose assumono una prospettiva assolutamente differente. Ma non tutti conoscono la bellezza della solitudine, moltissimi anzi non riescono ad accettarla.
Come fare allora a vivere la solitudine più serenamente, evitando di considerarla un peso? Non vi darò la risposta che vi cambierà la vita, ma semplicemente utilizzerò le parole di uno psicoanalista per cercare di convincervi che la solitudine porta frutto. Lo psicoanalista a cui mi riferisco si chiama Khan e nel saggio I Sé nascosti stimola a guardare quel tempo ritagliato per noi come fosse “un campo lasciato a maggese”. La nostra vita è fatta di incontri e sono proprio questi incontri a darci la possibilità di creare opportunità e a sfruttarle di conseguenza. La metafora del campo lasciato a maggese è significativa: si intende rendere la propria solitudine uno spazio lasciato sterrato e incolto dedicato al sé. Rendere la propria solitudine un luogo di sensibilità, di creatività, un luogo in cui si dà possibilità di ascoltare sé stessi; è il luogo dell’intimità dove si rende creativa e stabile la relazione sia col proprio Sé, sia con gli altri. Khan definisce questo modo di essere “restare oziosi”, non intendendo ciò che probabilmente la vostra mente inevitabilmente ha pensato leggendo questa espressione. Restare oziosi significa investire il proprio tempo su sé stessi fino a raggiungere una consapevolezza di ciò che si è, che difficilmente si trova e si raggiunge quando si è insieme agli altri.
“Per realizzarsi, s’intende, questo stato psichico abbisogna di una profonda accettazione di sé, di tolleranza per lo stare e l’esperire la propria e più personale solitudine.”. Essere come un campo lasciato a maggese vuol dire investire nel proprio tempo lasciato incolto. Non significa però ritagliarsi del tempo libero, che è invece fine a sé stesso: il tempo dedicato al proprio sé richiede molto più, implica desiderio di investimento da cui ne deriverà un risultato sorprendente. Per rendere la solitudine funzionale basterà rendere questo luogo ritagliato solo per noi semplicemente creativo.
L’aspetto affascinante è che secondo l’autore, pur essendo questa condizione privata e personale, richiede un ambiente umano favorevole per realizzarsi e conservarsi. Ne deriva la consapevolezza che stare bene con sé stessi e stare bene con gli altri sono condizioni che si intersecano e che derivano l’una dall’altra.
Imparare a vivere da soli con sé stessi è una abilità, necessaria all’uomo per vivere bene con gli altri, perché prima ha imparato a vivere da solo e ha imparato che anche da solo ha valore e il valore non sono certo gli altri a consegnarlo. Credere in sé stessi per poi comprendere l’importanza degli altri per il nostro benessere.
Perciò anche quando non avete ricercato la solitudine ma vi si è catapultata addosso, provate a renderla luogo di creatività, utilizzatela per fare esperienza di ciò che siete, fermatevi per riconoscervi.
ECCO PERCHE’ STAR DA SOLI FA BENE: