Pensare Dio non significa aderire indissolubilmente alla Religione, di purchessia indirizzo di pensiero essa possa essere: pensare Dio significa porsi in posizione critica nei suoi confronti. Questo significa porsi in dialettica relazione con quest’ultimo essere, ipoteticamente massimamente perfetto: il momento della Preghiera è il momento massimo, l’acme, della dialettica che vede protagonisti il singolo individuo[1] e Dio.
Questo momento appena descritto è protagonista del contributo ivi presentatovi: prenderemo in esame il momento del pregare intendendolo in senso dialettico nei confronti della divinità, non per forza considerata in quanto cristiana. Precisando: un qualsivoglia Dio, venerato in quanto presenza che trascende il piano d’esistenza umano, è oggetto della seguente disquisizione filosofica.
«[…] noi percepiamo ciò che viene venerato come Dio non come “divino”, bensì […] come assurdo […]»
(F. Nietzsche, L’anticristo, Feltrinelli, 2018, Milano, p. 65, fr. 47).
In questa maniera il Friedrich definisce la percezione che l’individuo possiede del suo Dio[2]: è un rapporto sentito come assurdo. In questa maniera, il momento della Preghiera incarnerebbe la massima intensità di quest’assurdo: è, alla luce di quanto sinora detto, il momento dialettico – e di vicinanza, in altre parole – massimo della relazione con Dio. La preghiera è quindi diretta espressione di un rapporto la cui chiave di comprensione sembra essere l’armonia con l’assurdo.
Ma, per ora, limitiamoci a compiere un passo indietro e cerchiamo di cogliere questo “assurdo” nella sua interezza.
Affidandoci al dizionario, il lemma «assurdo» viene reso in questa maniera: “Che è contrario alla ragione, all’evidenza, al buon senso; che è in sé stesso una contraddizione”; ancora: “Ciò che non può essere pensato perché privo di ogni fondamento nella ragione, e quindi intrinsecamente contraddittorio”. Volgendo lo sguardo verso l’etimologia riportata: “dal lat. absurdus, propr. «stonato», der. di surdus «sordo»” [3]; decisamente più interessante, ammetterei, risulta essere l’etimologia del termine – cosa che, mi si permetta l’inciampo digressivo, vale per la quasi interezza dei lemmi – : l’assurdo reca eco alla sordità. Riflettendo intorno al concetto di sordità, penso sia condivisibile il fatto che riluca, all’interno del campo semantico-concettuale della parola, un senso oscuro, assordante, nebuloso, come aere umido, appiccicoso quindi, di vuoto. E’ l’impossibilità che si manifesta con il non-sentire che provoca questa nauseabonda sensazione di pienezza mancata: non sento il rumore delle cose che si scontrano, che urtano, che si toccano; non sento il tiepido gemito di una parola, scaturita da suoni che pudicamente tentano di comunicare un concetto.
Non sento nulla.
Posto quanto detto sinora, il concetto dell’assurdo legato a Dio si fa sempre più chiaro: il rapporto uomo-Dio è un rapporto sordo, un rapporto caratterizzato dall’assenza del sentire e dalla quindi conseguente impossibilità di risposta. Questa puntualizzazione è decisamente interessante e può dar adito a diverse riflessioni circa il tema: seppure la sordità del Dio possa essere vista in modo negativo, ossia connoterebbe il Dio come un essere quasi indifferente – poiché sordo – , sembra, voltando logicamente il concetto al contrario, corroborare il dogmatismo religioso; si crede per fede[4]!
Poco sopra, avendo, grazie al frammento nietzschiano, definito il rapporto con Dio come assurdo, abbiamo inteso la Preghiera come la massima espressione di quest’assurdità, essendo questa il momento di massima vicinanza – di dialettica – tra le due parti del rapporto singolo-divinità. Parrebbe, così, che il trait d’union tra il singolo ed il Dio sia la Preghiera, eppure, legando la definizione di quest’ultima all’analisi della sordità fatta, noteremo come, alla vicinanza dialettica che il pregare permette di raggiungere si contrappone una lontananza inestinguibile: lontananza che nasce dalla sordità stessa del Dio.
Questo punto d’approdo ci costringe a rivalutare completamente quella dialettica che nasce con la Preghiera: seppure questa – ora possiamo affermare – tenti di avvicinare l’individuo al Dio, il dialogo che ne consegue è un dialogo del tutto singolare: è una dialettica unilaterale e subordinativa[5].
Da quanto detto consegue direttamente che la Preghiera non riesca a soddisfare pienamente il suo fine, quello di mettere in contatto l’individuo con Dio: in maniera quasi paradossale, all’aumentare della vicinanza dialettica – la Preghiera sembra quasi l’ultimo gemito del desiderio che disperatamente anela ad un contatto impossibile – aumenta esponenzialmente la distanza che separa le due parti. Postulato questo, le conseguenze sono due, diametralmente opposte: la presenza di Dio sembra comprovata sempre più proprio grazie alla percezione di questo allontanamento – tesi che quindi alimenta l’importanza del fine della Preghiera – ; viene esclusa con ancora più forza la tesi secondo la quale la Preghiera riesca nel suo scopo.
In conclusione, ritengo che sia opportuno chiarire come, con quest’analisi appena condotta, non si stia invogliando al boicottaggio della Preghiera: la modesta disquisizione appena condotta ha tentato, per quanto possibile, di porsi in modo critico, super partes, nei confronti di un’usanza religiosa in modo tale da sviscerarne avversità e scopi. La soluzione dicotomica sopravvista, infatti, prevede due posizioni, come abbiamo detto, opposte: è scelta del singolo quella di prender parte ad una delle due, o a nessuna.
Personalmente, ritengo il rapporto con Dio uno specchio visto da varie prospettive, tante quante sono le persone: seppur lo specchio sia sempre quello stesso, il fatto che sia visto da diverse prospettive implica che rifletta punti completamente diversi, a seconda della posizione dalla quale vi si punta lo sguardo. Se Dio è Amore, quello spassionato e puro, penso che sia anche espressione della Libertà: Libertà che permette ognuno di poterlo contemplare – ed apprezzare – secondo quelle che sono le proprie caratteristiche.
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[1] Seppure la Santa Messa, ed in un certo senso per estensione la Chiesa cristiana, ritenga il rapporto “diretto” con Dio intraprendibile soprattutto in quanto comunità, nella seguente riflessione preferisco, in modo del tutto autoriale, considerare questo rapporto possibile anche – se non esclusivamente – mediante la relazione singolo-divinità.
[2] Per completezza, e per dovere e rispetto nei confronti del pensiero del filosofo, penso che sia corretto precisare come, in questo passo, Nietzsche si stia riferendo al Dio cristiano, e non ad altre entità trascendenti; eppure, alla luce delle sue idee intorno alla questione, potrei azzardare come ciò non escluda la possibilità che avrebbe potuto riferirsi a quest’ultime nella medesima maniera.
[3] Le informazioni intorno al lemma ivi riportate sono state mutuate dal Dizionario Treccani.
[4] Acuirebbe, quindi, il dogmatismo religioso tipico del credo cattolico.
[5] «Il Cristianesimo ha bisogno della malattia, all’incirca come la grecità ha bisogno di una sovrabbondanza di salute […]. L’uomo religioso, come lo vuole la chiesa, è un tipico décadent[…].» (F. Nietzsche, L’anticristo, Feltrinelli, 2018, Milano, p.70, fr. 51). Con questa nota si tenta di spiegare meglio quanto s’intende con il termine “subordinativa” nel tratto di testo alla nota inferente: la subordinazione è il rapporto che la chiesa sembrerebbe intendere come “ideale” nel rapporto con la divinità: il singolo che s’inginocchia di fronte al presunto cospetto della divinità presente nel suggestivo ambiente di un ritrovo per credenti, è la massima espressione di devozione, secondo la chiesa, ma letto dall’altro lato anche la massima espressione della subordinazione. Questa subordinazione è ancora più intensa se si pensa al fatto che, proprio quell’espediente che dovrebbe permettere all’individuo di relazionarsi con la divinità – la Preghiera – non fa altro che allontanarlo dalla stessa.
[divider] Altre mie pubblicazioni: https://independentscholar.academia.edu/SimoneSantamato