I concetti di cibarsi e mangiare sono migrati dal “nutrimento” presente durante la guerra o nei periodi di carestia, a quello di “piacere” e “rito culturale” nato dall’industrializzazione fino al preponderante sviluppo odierno. Tale premessa è doverosa poiché nella società occidentale, il cibo è tra i beni maggiormente presenti in abbondanza e disponibile 24 h su 24: comprendere il rapporto che abbiamo con esso e le nostra preferenze può rivelare molto di noi.
Il nutrimento è uno dei primi rapporti che creiamo con la figura materna: dal grembo dove passivamente assorbivamo le sue introiezioni, alla nascita dove avevamo un ruolo più “attivo” nell’accoglierlo o rifiutarlo. E’ anche uno dei primi linguaggi non verbali con cui ci siamo confrontati: il latte materno oltre a nutrire permette di entrare in relazione con le emozioni trasmesse dalla madre come affetto, comprensione, sicurezza, considerazione oppure con ansia, nervosismo, riprovazione, stanchezza. Una madre (o persona di accudimento) seppur presente al ruolo ma distante affettivamente può far esperire la necessità di surrogare tale mancanza col cibo. Al contrario, un forte legame di tipo simbiotico con la madre durante l’infanzia, se non sostituito da progressivi processi di separazione ed individuazione, non lascia al bambino lo spazio sufficiente per diventare psicologicamente maturo, indipendente e capace di “tollerare le frustrazioni”: potranno quindi esserci difficoltà a procrastinare il soddisfacimento di un bisogno e “buttarsi” sul cibo come conseguenza.
Anche il modo in cui il cibo ci è stato somministrato da piccoli e la qualità delle emozioni sottostanti fanno la differenza. Se, ad esempio il cibo era offerto quando eravamo stanchi, nervosi, per distrarci dai capricci, come rimedio, premio, per tenerci occupati o per ragioni che esulano dalla nostra fame fisiologica, potremmo avere la diffusa tendenza di aprire il frigorifero per trovare una risposta compensatoria ed immediata al disagio emotivo del momento: tireremo fuori così degli “anestetici” che ci distraggono e coprono il senso di disagio.
Come possiamo comprendere se stiamo mangiando per fame o per sfogo?
Uno dei campanelli d’allarme può essere l’osservazione del “modo” in cui mangiamo: se il cibo non è gustato, ma ingurgitato con voracità e velocità, probabilmente stiamo confondendo la sensazione di fame vera e propria con quella di compensazione. Emozioni come rabbia, noia, tensione, sono spesso confuse con la fame.
Oltre a “come” mangiamo, è importante osservare “cosa”mangiamo. Il cibo contiene significati simbolici:
– sostanze liquide: bisogno di leggerezza
– cibi solidi: richiamano una dimensione terrena, concreta.
– alimenti dolci: bisogno dipendenza e accudimento, conoslazione
– alimenti salati: rinforzano un comportamento maturo, indipendente
– prodotti di origine animale: forza e aggressività, numerosi studi correlano l’assunzione di carni, specialmente rosse, a comportamenti aggressivi
– prodotti vegetali: richiamano una dimensione relazionale armonica, di equilibrio
– latte e latticini: bisogno di accudimento materno, regressivo.
Prima di dirigerci verso la cucina chiediamoci quindi: quella che sento è fame fisiologica o fame emotiva?
Si ricorda che non è automatico che un certo tipo di relazione materna influisca sulle abitudini alimentari adulte o che ne sia l’unico responsabile.