Nella mente di un terrorista, storie di ordinaria follia

Quali sono i motivi che spingono una persona a seguire un’ideologia estremista, tanto da diventare un terrorista? 

Studi recenti (Reicher e Haslam, 2016) affermano che la maggior parte dei “terroristi” sono persone ordinarie, senza conclamate psicopatologie psichiche, persone, però, fortemente condizionate dalle cosiddette dinamiche del gruppo, tanto da sacrificare se stessi e mettere in atto comportamenti estremamente violenti in nome di una presunta “giusta causa”, una fede.

Non so voi ma, a volte, ammetto di aver pensato al terrorista come un mostro, sadico e psicopatico che ama guardare le sue vittime soffrire. Bene, anch’io ho utilizzato una modalità “fanatica”, ossia una forma di generalizzazione radicale offerta, su un piatto d’argento, dall’ottundimento mediatico. Eppure, penserete, queste persone indossano giubbotti imbottiti di esplosivo, guidano camion come fossero in un videogioco e fanno stragi! Com’è possibile? Devono per forza essere mentalmente malati. Dipende da cosa intendiamo per malattia..

Nell’ormai lontano 1970, in un esperimento di psicologia sociale condotto da Millgram, ricercatori hanno provato come un campione di persone “normali” era disposto ad infliggere scariche elettriche letali solo perché veniva chiesto loro da persone che indossavano un camice bianco. Questi studi hanno dimostrato che la maggior parte degli esseri umani può commettere atti di violenza se immersi in determinate condizioni. Stesso discorso vale per i terroristi. Queste persone obbediscono a delle dinamiche di gruppo correlate con il conformismo, ovvero l’obbedienza ad un leader e il sottostare alla cosiddetta maggioranza. Ciò che avviene, per la precisione, è una identificazione con il proprio gruppo e una dis-identificazione con i gruppi esterni al proprio. Questo autorizza la persona, che crede fortemente nella percepita “giusta causa” del proprio gruppo, ad agire in nome di essa contro coloro che pensa come il nemico.

In sintesi, questo processo è basato su polarizzazioni (ossia su opposti buono/cattivo, giusto/sbagliato, amico/nemico) e generalizzazioni (chiunque non appartiene al mio gruppo è da combattere).

Penserete di essere immuni a queste dinamiche ma, ahimè, siamo immersi in esse più di quanto immaginiamo e, spesso, senza rendercene conto. Per non guardare il mondo tramite lenti distorte c’è la necessità di fare spazio al pensiero personale, che vada al di là di quello che sembra scontato, un pensiero che non rientra negli schemi che conosciamo.

Non è semplice, significa riconoscere che non siamo buoni o cattivi, in forma estrema, ma persone che compiono azioni produttive o distruttive. Significa non alimentare la parte radicale di noi che ci invita, a volte, all’odio e all’intolleranza per la diversità. E voi? Quanto usate la generalizzazione nella vostra vita?

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Dott.ssa Iole Ceruzzi
Psicologa Psicoterapeuta
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