“Il rancore è l’effusione di un sentimento di inferiorità”
diceva JOSÉ ORTEGA Y GASSET eppure la fine di qualcosa che non va come avremmo voluto ci porta spesso a coltivare risentimento e rancore. Con un unico desiderio alla fine: vendicarci. O almeno sperare che l’altro, ex, amico, collega o familiare che sia, tutto sommato non stia poi così bene. Non deve essere felice, perché IO non lo sono!
Come se coltivare e salvaguardare nel tempo questo sentimento in qualche modo possa darci la giustizia che crediamo ci spetti. Perché noi, che abbiamo subito quel torto, quel giorno lì, meritiamo che giustizia sia fatta. Ci aggrappiamo al fatto di avere ragione, ed oggettivamente magari l’abbiamo, quindi questo ci legittima a coltivare quel sentimento di rabbia e frustrazione nel tempo. Alimentandolo con sospetti, con immagini di scene di attese non soddisfatte, con ricordi di tutti quei più o meno piccoli gesti che quella persona da allora ha fatto o non ha fatto nei nostri confronti.
Vi siete mai sentiti così?
Almeno una volta nella vita a tutti è capitato di coltivare quel sentimento nel tempo, di non riuscire, o semplicemente di non voler riuscire a dimenticare quella situazione nella quale in qualche modo ci siamo sentiti feriti.
Ti stanno tornando alla mente diversi esempi vero?
Ora ti chiedo di fermati a riflettere su come ti sei sentito e su come ti senti ora?
Il risentimento che precede il rancore è come se ci chiudesse in una gabbia, impedendoci di riuscire a vivere il presente. È un’emozione non rielaborata che ha come conseguenza quella di alimentare il nostro senso di frustrazione e malessere.