Li chiamano superstiti, sono coloro che hanno vissuto un evento traumatico e hanno la fortuna di raccontarlo. Non tutti sono disposti a farlo: spesso i ricordi tornano così vividi che sembra quasi di rivivere il dramma, spesso non si ricorda tutto. Trovare la concentrazione, così come il sonno, è difficile, si è ipervigili, ci si allarma facilmente. L’umore crolla come è normale che accada in un mondo a tinte fosche in cui non ci si fida più nemmeno di se stessi. Il dramma dei superstiti s’innesta poi su uno sfondo cupo di bombardamenti mediatici che ogni giorno ci espongono a eventi traumatici che, condivisi e globalizzati, rischiano di provocare indirettamente importanti effetti di disagio psicologico. Di fronte a questo scenario di precarietà e incertezza, in cui paradossalmente è sempre più difficile accettare la propria vulnerabilità, cosa rappresenta un trauma?
Il trauma, parola con cui i greci, a ragione, indicavano una ferita, è un’esperienza capace di lacerare l’esistenza umana. Rispetto a tutti gli agenti stressanti, inevitabili e talvolta funzionali, che si incontrano ogni giorno, il trauma si manifesta come qualcosa di isolato, inaspettato, travolgente che mette a repentaglio la nostra vita. È evidente che il livello di traumatizzazione non dipende unicamente dall’entità dell’evento ma anche da fattori specifici dell’individuo. Che avvenga per cause naturali o per mano dell’uomo, un trauma piomba all’improvviso superando qualsiasi risorsa personale che possa farvi fronte. Ne sanno qualcosa le vittime dell’attentato a Las Vegas, i superstiti del terremoto in Messico o coloro che hanno tentato il suicidio dopo l’incendio della Grenfell Tower: storie diverse, destini comuni. Al di là delle numerose sfaccettature che possono assumere, infatti, le possibili manifestazioni post-traumatiche hanno tutte origine nel nostro sistema limbico, deputato all’elaborazione di comportamenti correlati alla sopravvivenza, per il quale la valutazione emotiva dell’evento precede quella consapevole.
Esemplificativa è la storia di Charles Dickens che, di ritorno da Parigi verso Londra, fu vittima di un gravissimo incidente ferroviario. La fortuna volle che la sua carrozza fu l’unica a non precipitare nel fiume ma, seppur fisicamente illeso, confessò di avere improvvisi attacchi di terrore, “irragionevoli ma del tutto insormontabili”. “I nervi di mio padre non sono stati più gli stessi” scrisse la figlia. Facendo un ulteriore salto indietro nei secoli, Seneca, nel Libro VI delle Naturales Quaestiones scrivendo delle reazioni al terremoto che colpì Pompei, parlò di uno sbigottimento generale tra persone non più padrone di se stesse che vagavano con la mente sconvolta: “cosa può essere di aiuto quando la paura ha perso ogni via di scampo?”.
Oggi possiamo dare risposta a questa domanda posta nel primo secolo d.C.: le evidenze dimostrano che le terapie aiutano ad elaborare un trauma. Inoltre, negli ultimi anni, la psicologia dell’emergenza agisce repentinamente negli eventi critici per cercare di contenere le reazioni psicologiche delle vittime. Numerosi studi hanno infatti confermato che il trauma, proprio come una ferita, può rimarginarsi. È un percorso noto come crescita post-traumatica che porta i sopravvissuti ad una catastrofe a rileggere la propria storia da una prospettiva differente. Questo concetto si discosta da quello di resilienza con cui s’intende la capacità di far fronte ad un evento traumatico mantenendo una traiettoria stabile, seppur con perturbazioni transitorie, con un ritorno al livello di funzionamento pre-evento. La crescita post-traumatica descrive, invece, una trasformazione positiva rilevata empiricamente. Il trauma assume un potere trasformativo e diventa un nuovo punto di partenza. Ci si sente più forti e sicuri, si sviluppano relazioni più intime e si apprezza maggiormente la vita, di cui si riscoprono nuove possibilità.
In fondo l’altra faccia della fortuna ci insegna che sulla nostra vita abbiamo più potere di quanto immaginiamo e che, di sicuro, sopravvivere non basta.