Autrice: Daniela Raffa
Supervisione: Antonino La Tona
Il setting ha sempre rivestito una funzione importante all’interno del processo terapeutico, essendo la cornice entro la quale si declina la relazione paziente-terapeuta. Con il termine setting si fa solitamente riferimento sia ad elementi materiali, come il luogo in cui vengono effettuate le sedute, la frequenza di esse, le modalità di pagamento, sia ad elementi astratti, quali, ad esempio, le regole vigenti nel corso degli incontri e tra l’uno e l’altro, il modello di riferimento del terapeuta, etc.
La pandemia in corso ha determinato delle modifiche riguardanti gli aspetti materiali del setting terapeutico e ciò è osservabile in maniera relativamente facile, ma ha inciso su di esso anche ad un altro livello, più profondo, ma meno visibile. Data la necessità di arginare i contagi, ma, al contempo, di garantire una continuità assistenziale le alternative alle quali ci siamo trovati di fronte noi terapeuti sono state essenzialmente due: continuare ad effettuare prestazioni in presenza, utilizzando le precauzioni che l’epoca impone o, perlomeno laddove possibile, optare per l’erogazione delle sedute in modalità telematica. Entrambe le soluzioni implicano dei cambiamenti della cornice e presentano alcuni pro e alcuni contro: se si opta per le sedute in presenza, di cui può continuare a beneficiare anche chi non dispone della privacy e o della connessione necessarie per poter essere seguito online, per reciproca tutela è fondamentale che paziente e terapeuta indossino correttamente la mascherina e se essa è risorsa preziosa per il contenimento dei contagi, al contempo non rende visibile una parte del volto; d’altro canto se si sceglie l’intervento in modalità telematica, grazie al quale si potrà garantire continuità anche nei casi in cui professionista e utente non abbiano la possibilità di incontrarsi dal vivo (ad esempio perché uno dei due presenta qualche sintomo influenzale) o scelgano di non farlo per azzerare il rischio che l’uno contagi l’altro o viceversa, il viso è interamente scoperto, ma si perde una parte della prossemica.
A questi aspetti, facilmente osservabili, se ne accostano altri, meno evidenti, ma non per questo meno importanti. Come osserva Dambone, se in epoca pre- Covid un paziente avesse riproposto un disagio/dolore simile a quello da noi sperimentato, difficilmente sarebbe stato identificabile col nostro in quanto il nostro, almeno in linea teorica, avrebbe dovuto appartenere ad un tempo diverso ed essere già stato elaborato; aggiungo che anche nel caso in cui l’elaborazione non fosse avvenuta (ipotesi generalmente non auspicabile ai fini dell’efficacia della terapia) il paziente avrebbe potuto intuirlo, ma che ne venisse messo a conoscenza sarebbe stato difficile, anche se non impossibile, in quanto avrebbero inciso al riguardo una serie di variabili quali il modello di riferimento del terapeuta, la sua idea di self- disclousure, la maggiore o minore propensione ad essa, etc. Attualmente, invece, utente e professionista si ritrovano immersi nel comune denominatore della pandemia in quanto entrambi potrebbero ammalarsi, entrambi potrebbero avere paura che ciò accada, essere preoccupati per la salute dei propri cari, per le ripercussioni sulla sfera professionale; il paziente è consapevole del fatto che il terapeuta non sia immune dalla possibilità di contagio e da ciò che è ad essa correlato. Tutto questo potrebbe rappresentare un vincolo, essere in qualche modo di ostacolo per la terapia? Credo che la risposta più giusta sia “Dipende”. Il concetto di neutralità dello psicoterapeuta è stato, se non superato, quantomeno rivisitato: non esiste una neutralità totale in quanto il professionista non è scevro da emozioni, né deve fingere di esserlo, può piuttosto utilizzare esse come alleate nella terapia.
Ritengo che la consapevolezza e l’utilizzo funzionale delle proprie emozioni da parte del terapeuta assumano ulteriore importanza in epoca pandemica in quanto la vulnerabilità condivisa che essa determina può rivelarsi funzionale per l’alleanza terapeutica, rappresentando, a quel punto, non solo e direi non tanto un vincolo, quanto una risorsa. E, a proposito di risorse, vorrei spendere qualche parola in più a proposito delle sedute online. Se alcuni colleghi adottavano, almeno con alcuni pazienti ed in alcune circostanze, questa modalità già da diversi anni prima della pandemia, altri sono tuttora scettici al riguardo. Personalmente, in epoca pre-Covid non avevo preso in considerazione l’idea di utilizzarla o comunque proporla, in quanto mi focalizzavo più sui potenziali vincoli che sulle risorse di essa, pensavo, ad esempio, al fatto che, come accennavo sopra, da remoto si perde una parte della prossemica e ipotizzavo che lo schermo potesse rappresentare una barriera, rendendo più difficoltoso l’accesso al versante emotivo. Il primo lockdown mi ha dato modo di ricredermi al riguardo in quanto non solo ho avuto modo di sperimentare continuità per quanto riguardava il lavoro con pazienti seguiti in studio prima della pandemia e in videochiamata all’insorgere di essa, ma ho anche constatato che creare un’alleanza con utenti conosciuti tramite il web non necessariamente richiede tempi più lunghi di quelli che occorrono per instaurare essa con pazienti visti per la prima volta in studio.
La mia attenzione, quindi, non si è più focalizzata sul cosa si perde, ma sul cosa si acquisice e ho maturato delle riflessioni al riguardo. Gli schermi utilizzati (cellulare, tablet, computer) non necessariamente costituiscono una barriera, anzi, in alcuni casi, facilitano l’espressione delle emozioni da parte del paziente: a volte i pazienti in videochiamata piangono, affrontano argomenti delicati, si autorivelano ancor più che in presenza, forse per effetto di un meccanismo simile alla disinibizione online benigna di cui parla Suler. In videochiamata, inoltre, io, terapeuta, ho la possibilità di osservare il mio volto in interazione con quello del paziente e, di conseguenza, quella di acquisire una maggiore consapevolezza dei miei stati emotivi e mentali. Alla luce di quanto scritto, non credo esistano un setting migliore ed uno peggiore: le scelte vanno calibrate in base ad una serie di variabili, ognuna di esse può implicare dei vincoli e delle risorse, ognuna di esse può essere al contempo vincolo e risorsa.
Daniela Raffa
(Psicologa- Psicoterapeuta)