Quando parliamo di disimpegno morale in psicologia intendiamo un processo cognitivo che opera una scissione tra pensiero ed azione. Questa scissione permette alla persona che mette in atto una condotta palesemente immorale di sentirsi in pace con la propria coscienza anche quando tradisce i propri principi.
Già Albert Bandura nei propri studi evidenziava come nei primi periodi di sviluppo i bambini mettano in atto tali processi di disimpegno morale e che molti bulli li utilizzino sistematicamente per attuare prepotenze e trasgressioni. Attraverso meccanismi di legittimazione e rinforzi il disimpegno morale attenua i sensi di colpa quando si trasgrediscono le disposizioni parasociali, favorendo contemporaneamente collera e ricerca di vendetta attraverso comportamenti delinquenziali.
Un meccanismo che grazie alla sua pervasività e diffusione favorisce una spontanea inclinazione all’autoassoluzione. Ritroviamo questo meccanismo fortemente legato ad atti di prevaricazione e violenze come il bullismo ma anche in tanti aspetti della vita quotidiana. Esistono dei comportamenti del tutto “naturali” che ognuno di noi ha messo almeno una volta in atto e che caratterizzano un forte sentimento di disimpegno morale: asportare posacenere o tovagliette, scaricare film o programmi in modo illegale, rubare un’idea altrui, omettere di dichiarare tutto al fisco, parcheggiare in doppia fila (seppur pochi minuti), copiare da un compagno di banco, dire una piccola bugia (anche se a fin di bene). Tutti atteggiamenti che passano sotto traccia e che spesso vengono spiegati o meglio giustificati come atteggiamenti legati all’istinto ma che nient’altro sono che elaborazioni particolari delle informazioni, modalità diverse di attribuire le responsabilità e di valutare le conseguenze.
Sebbene la natura, soprattutto quando parliamo di moralità ed onestà. predisponga le potenzialità per agire bene, la cultura influenza fortemente le nostre decisioni determinando la nostra condotta morale attraverso le azioni in conformità o meno di norme interne ed esterne. A tal proposito la nostra mente sviluppa tutta una serie di meccanismi che permettono di preservare i nostri giudizi morali socialmente accettabili anche in presenza di condotte palesemente dissonanti.
Esistono meccanismi ben definiti che la nostra mente mette in atto in questi casi come ad esempio “la giustificazione morale”: che giustifica comportamenti riprovevoli quando questi siano messi in atto a causa di principi considerati “superiori”. “L’etichettamento eufemistico” invece permette di prendere le distanze dalle proprie azioni allorquando si descrivono gli eventi enfatizzandone i toni drammatici giustificando così i propri comportamenti anche quando questi suscitano le reazioni negative degli altri. Nel caso del “confronto vantaggioso” si usa confrontare il proprio comportamento con quello di un’altra persona enfatizzando le caratteristiche negative dell’altro e cercando di giungere alla propria autoassoluzione. Quando invece la nostra mente mette in atto un meccanismo di “spostamento e diffusione della responsabilità” non fa altro che giustificare il reo di un comportamento riprovevole giustificandolo con il rispetto di ordini ricevuti dai superiori. Si verifica come è ovvio nei casi di crimini di guerra. Ad esso è legata la convinzione che i membri di un gruppo si ritengono esonerati da condotte violente o delittuose poiché nessuno più degli altri ha una colpa specifica ed unica. Quando si mette in atto la “sottovalutazione e distorsione delle conseguenze” ovviamente si cerca di giustificare il proprio comportamento minimizzando le conseguenze ed i risultati nefasti dello stesso altrimenti si proverebbe dolore, vergogna, colpa, rimorso. Infine tra i meccanismi alla base del disimpegno morale ritroviamo la “colpevolizzazione e svalutazione della vittima” spesso presente nei casi di violenza sessuale. Un meccanismo questo che arriva a demonizzare la vittima del proprio comportamento così da permettere di attuare nei suoi confronti ogni forma di crudeltà, anche uno massacro dei propri simili.
Si tratta purtroppo di meccanismi di pensiero pervasivo e diffusi, non di sporadici comportamenti basati sull’istinto. Essi riescono a far breccia e penetrare nelle pieghe del discorso morale collettivo ed in alcuni casi riescono addirittura a trovare il consenso proprio perché si tratta di meccanismi che chiunque può sviluppare mentalmente e mettere in atto praticamente. Ovviamente c’è chi è più propenso a far ricorso a certi meccanismi e ciò è determinato anche dal ruolo sociale che riveste (pensiamo ai manager che devono fare l’interesse dell’azienda o ai dittatori che uccidono per i propri interessi).
Spesso però è anche il sistema sociale e culturale che spinge in una direzione e detta principi morali reclamando che l’azione si conformi ad essi, influenzando scelte ed azioni in contrasto con la propria morale; pensiamo a tutte le atrocità commesse nelle epoche passate in nome della croce, della corona, della patria e che ancora oggi si affacciano alla nostra coscienza nelle ricorrenze create per non dimenticare. Ma pensiamo anche a quanto molti comportamenti sono autogiustificati oggi grazie ad un disimpegno morale che sta diventando purtroppo la regola più che l’eccezione e che permette di autoassolversi in casi veramente crudeli e cruenti. Sta sempre più prendendo piede una scissione tra pensiero ed azione favorito anche da un’anestetizzazione delle emozioni e dell’umanità e la società molto spesso è complice di tutto ciò in una sorta di rassegnazione ed indifferenza verso qualcosa che non colpisce direttamente (almeno in quel momento); come a dire: “Se non mi riguarda direttamente non mi interessa!”.
Infine anche il filtro dei media che spesso si limitano a descrivere sommariamente le situazioni o spostano il focus su altro rappresenta un grosso stravolgimento dei vincoli morali, soprattutto attraverso la presentazione delle informazioni e sull’idea di dover fare spettacolo. Quindi a ben guardare più c’è distanza tra chi decide, esecutori ed effetto, maggiore sarà il senso di disimpegno morale ed i processi di attenuazione e rimozione delle responsabilità individuali. È difficile non innescare un processo di disimpegno morale anche nelle coscienze più accorte, soprattutto quando chi decide è lontano dalle conseguenze delle decisioni che prende.
Per approfondire:
G.V. Caprara, “Minima moralità. Disimpegno morale: la tentazione dell’autoassoluzione” in Psicologia Contemporanea, n. 160, lug.-ago 2000, pp30-35
© Dott. Pasquale Saviano
Psicologo – Psicoterapeuta