Tra unione e desiderio: il Controtransfert
Sebbene Freud, successivamente al fallimento della relazione terapeutica con Dora, si sia accorto della presenza di un fenomeno di traslazione anche da parte dell’analista, ha preferito non sviscerare completamente gli aspetti più controversi del controtransfert accennando solamente alla figura dell’analista come uno specchio opaco; con questa metafora, il padre della Psicoanalisi vuole intendere la necessaria neutralità da parte dell’analista all’interno della relazione terapeutica arginando però molti aspetti nascosti del transfert che avrebbero potuto suscitare molte critiche all’interno della società medica in un momento dove lo stesso Freud aveva come scopo fondamentale quello di far spiccare il volo al suo nuovo modello terapeutico. Autori successivi, invece, hanno dato ampio spazio alla trattazione di questo fenomeno che, gradualmente, è diventato un dispositivo analitico indispensabile. Tra questi, Ferenczi, l’enfant terrible della psicoanalisi, è il primo a sviluppare il concetto di empatia (Einfhlung), nella quale “intervengono sia il pensiero che la sensibilità del terapeuta il quale, pur mettendosi nei panni mentali del paziente, mantiene dai suoi contenuti interni quella distanza sufficiente a permettergli di riconoscere in essi pensieri e tendenze che per l’altro rimangono del tutto inconsci”. Il proselita di Freud critica in questo modo la neutralità freudiana, teorizzando, parallelamente all’empatia, il sentimento oceanico, nel quale la traslazione del paziente e quella dell’analista seguono un continuum; i limiti tra i due soggetti-supposti-oggetti sono labili come una giustapposizione di colori di un quadro impressionista in cui, ad una prima occhiata sfuggente, la relazione sembra un unicum ma, se vista da vicino, si riesce a notare in essa una separazione dei ruoli che tuttavia, come già detto, risulta sfumata e non determinata. Si prospetta un oceano come simbolo dell’illimitato, dell’unità in cui le molteplicità si dissolvono, nonostante occorra assumere la permanente distinzione tra ruolo del paziente e ruolo dell’analista. Quest’ultimo esplica un duplice funzionamento: l’incontro con il paziente spinge il terapeuta a mettersi nei panni mentali dell’altro e, dopo un lavoro empatizzante, a fornire un’interpretazione all’analizzato.
È in quest’ottica propria di scissione-unione che si vitalizza il controtransfert winnicottiano, dove il paziente e l’analista sembrano riattualizzare, con le dovute modificazioni, la relazione madre-bambino. L’analista partecipa attivamente all’analisi favorendo la regressione all’ambiente originario attraverso l’esplicitazione dei propri sentimenti latenti, parallelamente “il paziente può apprezzare nell’analista solo ciò che egli stesso è capace di sentire”. Vi è una sostanziale differenza tra le due relazioni: la madre è inconsapevole della propria funzione di holding, mentre il terapeuta è cosciente di sé nella sua “preoccupazione analitica primaria”, volta a favorire la regressione e la riattualizzazione dell’ambiente primario al fine di far rivivere ciò che doveva avvenire e non è avvenuto. La relazione paziente – analista in Winnicott si avvicina a quella di Ferenczi poiché entrambe sono viste come un cunctus in cui i ruoli sono uniti pur rimanendo le loro identità differenti. Ciò rimanda al rapporto madre – bambino dal momento che, inizialmente, il bambino non riesce a distinguere il Sé dall’oggetto ma, con lo scorrere del tempo e per mezzo delle disillusioni oggettuali, inizia a vedere la madre come altro da sé.
“Ridare al paziente ciò che il paziente porta”; una storicizzazione winnicottiana, dunque, della storia del paziente, una “realizzazione psicoanalitica del soggetto” come invece direbbe Lacan, attuabile attraverso una parola di riconoscimento che si apre all’altro, verso l’analizzato che deve realizzarsi simbolicamente. Una parola piena, una parola che per Lacan deve essere rivolta al mondo del simbolico, al mondo dell’inconscio, per ridare continuità alla storia del soggetto, rendendo leggibile quel capitolo dell’inconscio che si è nascosto dietro se stesso. La pienezza della parola in opposizione ad una parola vuota che si rivolge all’essere narcisistico del soggetto, una parola ancorata all’immaginario che di certo non permette il raggiungimento del simbolico, imprigionando l’io in una fittizia padronanza. Se è vero che Lacan ci propone una clinica della parola piena, è altrettanto vero che esorta l’analista a saper ‘custodire il silenzio’, silenzio che per Sartre, in una versione prelacaniana, ha delle conseguenze pari a quelle della parola, se non maggiori. Un silenzio che deve donare significato alla parola dell’analizzato, silenzio che deve aprirsi alla dialettica del riconoscimento dell’altro. Già in precedenza Freud aveva intuito, seppure in modo inconsapevole, questa dinamica del riconoscimento di cui ci viene dato l’esempio emblematico da una delle ultime pazienti di Freud che si recò nello studio di Londra assieme alla madre. Appena entrate, si misero a sedere e subito la madre prese la parola, a questo punto Freud chiese alla madre di alzarsi e di lasciare la stanza per restare da solo con la figlia. Una volta uscita, Freud fece il dono della parola alla figlia. Questo dono consisteva nel riconoscerla, nel conferire riconoscimento alla sua parola; ‘parla, io ti riconosco, io riconosco la tua parola’! L’analista deve aprirsi all’altro, che come ci ricorda Enzo Spaltro, “è sempre un diverso da me”, riconoscendolo nella sua singolarità, nella propria soggettività. “Il desiderio è sempre desiderio di riconoscimento del desiderio dell’altro” scrive Lacan, desiderio che appartiene al mondo delle stelle, desiderio che albera e che si genera in noi ma che al tempo stesso ci oltrepassa, desiderio che è inconscio, incontrollabile, pura irrazionalità, desiderio a cui l’uomo è chiamato a non commettere il grosso errore di cedervi, resistendo come Ulisse al canto delle sirene, legandosi all’albero maestro della nave per trattenersi dal proprio desiderio. In questa dinamica del non cedere sul proprio desiderio rientra anche la particolare figura dell’analista che deve saper resistere ma al tempo stesso saper invocare un altro tipo di desiderio, un desiderio altro, più forte che Lacan chiama “desiderio dell’analista”. In cosa consiste questo desiderio? Consiste nel saper “tacere l’amore”, facendo un passo indietro sul proprio desiderio, astenendosi da un giudizio psicologista che oggi sta dilagando nella clinica, ancorato al vano tentativo di fornire una cifra, un valore, una misura della supposta sanità del paziente. Non c’è cifra, valore o metodo per misurare la vita dell’altro. “Io non ho titoli” asserisce Lacan volendo intendere come l’analista non ha nessun strumento, nessun paradigma cognitivo-comportamentista per misurare la vita dell’altro. Rifiutarsi di ridurre la vita al semplice numero è il compito dell’analista. Tacere l’amore… Ma come si fa tacere questo amore che per Lacan è amore per il dettaglio, amore per il particolare, amore per la singolarità irripetibile dell’altro, amore antinarcisitico, amore per la differenza assoluta dell’alterità? Nella sua contorsione metaforica Lacan vuole forse esortare gli analisti, non a tacere l’amore per il nome ma a tacere l’amore per il proprio desiderio; far retrocedere il proprio desiderio, fare un passo indietro, astenersi dal giudizio, non inflazionare la vita dell’altro ma far seguire la vocazione del proprio desiderio al paziente, riconoscere il desiderio dell’altro nella più assoluta differenza, ascoltare e qualche volta stare in silenzio di fronte al desiderio come desiderio di essere riconosciuto dal desiderio dell’altro. Saper amare l’altro, il diverso da me, scorgere nel paziente un dettaglio d’amore da saper invocare al momento più giusto, amare in senso antinarcisitico la differenza, la singolarità del paziente, saper far scoprire, invocare ed amare il desiderio dell’altro, non è forse questo il compito dell’analista? Bisogna davvero tacere questo amore? La clinica del benessere si fa dunque da parte, ponendosi sullo sfondo in un dipinto dove il vero protagonista in primo piano è una clinica della verità, della scoperta. Forse è questo ciò che Lacan ci vuole trasmettere attraverso questo suo linguaggio ricco di metafore e di contorsioni, un linguaggio talvolta incomprensibile che pare essere un muro al lettore, un linguaggio che, secondo l’autore, deve essere complesso perché solo così ci possiamo incamminare verso il tentativo di dare delle spiegazioni, seppur attraverso un pensiero che procede per paradossi, del mondo dell’inconscio.
Bibliografia
1 “Manuale di Psicologia Dinamica”, Concato -Innocenti, 2010, ed. Psiconline
2 “Confusione delle lingue tra adulti e bambini (il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione)”,1932
3 “L’odio nel Controtranfert”, 1947
4 “Jaques Lacan”, Di Ciaccia – Recalcati, 2000, ed. Bruno Mondadori
5 “Inventare l’organizzazione – idee per un buon lavoro”, Marocci, 2012, Pàtron editore
6 “I ritratti del desiderio”, Recalcati, 2012, ed. Raffaello Cortina
Articolo realizzato per il corso di Psicologia Dinamica dell’Università di Firenze.
Autori:
Filippo Maniaci, Eliana Pallini, Pietro Semplici, Chiara Testi
Viola Vignozzi, Lucrezia Vuturo, Luca Zompa
COME NON ROVINARE UNA STORIA D’AMORE