Articolo a cura della Dott.ssa Alessandra Baladamenti
Amore per i propri figli e senso del dovere: perché esiste un nesso tra entrambe queste situazioni?
Molte mamme, magari lavoratrici, si troveranno nella condizione di dover assumere una babysitter o affidare il piccolo alle cure di nonni, zii, amici, tate… Riprendere in mano la propria vita dopo la nascita è un dovere morale, ma ancora oggi la società fa sentire queste donne e madri a disagio.
“Ma come, lasci tuo figlio con un estraneo?”
“Metti la carriera al primo posto, e tuo figlio?”
“E tu saresti una mamma? Non ti occupi mai di lui!”
Queste frasi purtroppo vengono dette e ridette a tutte le madri del mondo. Non siete sole, vivete in una società con un pensiero errato.
È da fondamenti come questi che nasce il mito del sacrificio: la donna devota alla casa e alla famiglia, che fa tutto per gli altri, che annienta se stessa. Una leggenda? No, una situazione reale.
Tutti noi siamo stati figli, tutti noi abbiamo chiesto a nostra madre di fare qualcosa per noi, cucinare, lavare, sistemare… Quando si diventa madri, ci si rende conto dello sbaglio fatto in passato? No, o meglio, non sempre. Perché chiedere – per i figli – è legittimo, rispondere alle richieste – per le madri – dovrebbe essere cortesia, per la società è invece un obbligo. La società si aspetta una donna che si dedica sempre e solo agli altri e ai bisogni degli altri. Non solo quando questi altri sono piccoli ed effettivamente bisognosi, ma anche quando hanno più di quarant’anni e per molti versi si è felici di sostenerli, e per molti altri ci si potrebbe tranquillamente arrangiare da soli, ma non perché è ovvio, scontato e doveroso che una madre non sia disponibile, come di consueto, ma a disposizione. A riprova di ciò, uno studio ha dimostrato come in Italia il 70% degli over 30 vive ancora a casa dei genitori; nei paesi dell’Unione Europea solo il 10% dei trentenni vive ancora con mamma e papà: i ragazzi escono di casa a 18 anni e a 20 hanno già acquistato una casa da soli. Certo, dovremmo intentare un discorso che comprenda la legge sul lavoro e sugli stipendi, ma i dati parlano chiari: l’Italia è un paese di mammoni perché siamo cresciuti con l’idea che la mamma è la nostra sostituta.
La protagonista del mito del sacrificio è la “madre sacrificale”, una donna buona e patriarcale, sempre a disposizione di figli e marito che da sempre e comunque senza limiti e orari. Purtroppo le madri che non vogliono ricoprire tale ruolo, vengono spinte dalla società in un angolo, un ghetto: sono delle reiette, sono degli ibridi. Semplicemente per loro non sono madri. Una madre sacrificale non può lamentarsi, non può esser stanca, non può dormire più del dovuto, non può lavorare e non può sentire il bisogno di fare qualcosa che esuli l’occupazione domestica. Perché la famiglia da tutto quello che alla madre serve per essere felici. Chi va contro questi dettami sarà solo un’ingrata perché una madre sacrificale non può avere altri bisogni se non quelli famigliari.
La madre sacrificale è anche colei che ha tenuto i figli al suo fianco e ha preteso la loro eterna fedeltà in cambio della loro abnegazione: rimanere sotto la gonna materna, non aver pensiero alcuno, non crescere mai. Questa è stata la patologia più comune e pericolosa della maternità: la cura per la vita del bambino che cresce si è trasformata in una gabbia dorata che non permette la possibilità di separarsi. Mi distruggo per te, ma tu non sparisci, perché se smetto di rispecchiarmi in te, non vedo più nulla. Il pericolo che madre e figlio siano intrappolati in questa gabbia è forte e tangibile. E questo non giova a nessuno.
Questo tipo di “amore”, crea un dedalo da cui non riusciamo a uscire: il mito del sacrificio produce l’infelicità.
Arrivati a questo punto e a questo momento storico, dovrà esser necessario fare una riflessione: l’amore di una madre non si misura solo con quello che fa per noi. Non conta cosa lei prepari, non importa se lei pulisce la nostra stanza o ci stira gli abiti. Quello non è amore e non c’è un metro per misurarlo.
Una madre dimostra il suo amore quando lascia andare i propri figli: quando prepara loro alla vita, quando gli espone ai pericoli della società, quando da loro gli strumenti per combattere, quando spiega le loro ali e permette ai figli di volare lontano, crescere, sbagliare, sperimentare, amare…
Rinunciare alla propria felicità per essere amati è un atto autodistruttivo. Per amare qualcuno bisogna prima essere felici. Le persone sperano che il loro sacrificio porti loro l’amore del loro altro significativo. Quando si sacrifica il proprio benessere per amare qualcuno, si deve anche prendersi cura della salute emotiva e fisica del proprio altro significativo. Ciò richiede loro di usare le loro energie in modo responsabile e aiutare il loro partner a trovare la felicità. Un genitore vuole che il proprio figlio sia felice e vuole che ciò continui nel corso degli anni. Affinché ciò avvenga, insegna a suo figlio lezioni sull’autostima, la comprensione e la compassione. Cosa potrebbe esserci di più dannoso che sentire: “ho rinunciato alla mia felicità per te”? Un bambino si sentirebbe in colpa se lo sentisse dai suoi genitori. Fornire un esempio di dedizione genitoriale bilanciata con la cura di sé è positivo perché infonde nei bambini l’amore per gli altri, il rispetto di sé e la responsabilità.
Perché si potrà sempre fare ritorno a casa, una madre sarà sempre pronta ad accoglierci, magari dopo che avrà finito di lavorare o esser tornata dal cinema con le amiche. Perché sì, una madre è una donna, una madre è libera di vivere la sua vita senza togliere nulla a nessuno. Una madre ha bisogno di vivere la sua vita e ha bisogno di una società che la rispetti.
Perché dove finisce la libertà di una donna e di una madre, finisce anche la civiltà.