A cura del Prof. Daniele La Barbera – Professore ordinario di Psichiatria, Direttore U.O.C. di Psichiatria Azienda Policlinico Palermo
Per la prima volta, da quando il virus ha squinternato la nostra vita e alterato gran parte dei processi sociali ed economici, avverto – come un vago sentore di primavera – che forse potremmo essere vicini se non proprio alla scomparsa, alla decisiva attenuazione della diffusione pandemica. E’ una sensazione ancora fragile, eppure bella e ineffabile perché porta con sé uno sguardo al futuro, uno spiraglio di ottimismo, un’aspettativa di cambiamento positivo, magari non soltanto di normalizzazione ma anche di rinascita. D’altro canto il periodo di due anni in cui siamo andati a spasso con il virus (o meglio lui è andato a spasso con noi) è sufficientemente lungo non solo per lasciare tracce nei libri di Storia ma anche per modificare qualcosa della nostra coscienza individuale e collettiva. Sono dell’avviso che la pandemia non ci stia lasciando (se, come ci auguriamo, ci sta lasciando) migliori di prima e non capisco bene la retorica per la quale avremmo dovuto migliorare, attraversati stabilmente e continuamente da ansie e preoccupazioni, mantenute attive da una costante e duratura pressione mediatica che credo non abbia precedenti.
Con un’ aggiunta di un vortice informazionale perennemente in movimento, al cui interno è stato detto tutto, il suo contrario, e anche di più. E con dispareri, contrasti, diffidenze, ostilità, farneticazioni, falsità che hanno generato, nel loro insieme, una contaminazione e una deformazione del reale come forse non si era mai vista prima. Penso quindi che se prima non usciremo da questo vortice sarà davvero difficile bonificare tutta la paura, le angosce, i lutti, le perdite, la sospettosità, l’aggressività e anche l’enorme disagio legato alle terribili difficoltà economiche e lavorative che molti hanno patito; tutte queste esperienze negative tendono a incattivire le persone, provocano regressione e disperazione e non vanno certamente a stimolare – tranne che per pochi ed eletti individui dotati di grande maturità e saggezza – gli aspetti più nobili ed evoluti della personalità. Mentre sono più fiducioso che delle dinamiche positive possano venirsi a configurare nel periodo successivo alla scomparsa del virus o alla possibilità di essere derubricato ad agente endemico. Regresso e progresso infatti, sono dinamiche naturali della vita mentale e, spesso, l’uno assume valenza compensatoria rispetto all’altro.
La spinta vitale positiva che si originò dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale è un esempio efficace di tali alternanze che si verificano sia a livello individuale sia, in modo molto più estensivo, in tutta la comunità umana. E, d’altronde, riparare i lutti e le perdite, è un faticoso – e a volte doloroso – lavorìo che la nostre mente è costretta ad affrontare in momenti critici della nostra vita, e questo che sembra volgere al termine sicuramente lo è stato, protratto, continuativo, e capace di coinvolgere pressoché tutta la popolazione del pianeta.
Ciò che dovremmo assolutamente evitare sarà il rischio di una colossale e sbrigativa operazione di negazione che ci porti pericolosamente e infantilmente a fare un balzo in avanti e non considerare la quantità molto grande di errori, approssimazioni, incongruenze, contraddizioni che hanno accompagnato, a vari livelli e su differenti piani, la gestione dell’evento pandemico. SARS-COV-2 ci lascia oltre a tutti i gravi problemi che dobbiamo tentare di risolvere anche una quantità di lezioni di cui dovremmo fare tesoro per l’immediato futuro; non solo perché questa quasi certamente non sarà l’ultima pandemia che dovremo affrontare, ma anche per la quantità di fragilità e inadeguatezze che essa ha evidenziato, nell’individuo, nelle comunità, nelle istituzioni, nella politica e nei governi. E, tra le tante che potremmo enumerare, mi pare che una delle più disarmanti sia consistita nella enorme, direi anche inaspettata, permeabilità della nostra mente a una quantità di contenuti ideativi, non sempre congrui, a volte smaccatamente falsi, spesso esasperati oltre ogni misura e non raramente enunciati in modo talmente autoreferenziale da esacerbare il contrasto con le opinioni diverse e a creare fratture insanabili con quella che sarebbe dovuta essere la controparte con la quale potere dialogare.
Che tali posizioni abbiano a volte riguardato psicologi e medici lascia anche più interdetti, perché si tratta di categorie professionali formate per riconoscere e tenere sottocontrollo le modalità proiettive, confabulatorie e narcisiste gli uni, e per vagliare attentamente e in maniera critica ogni affermazione che pretenda di proporsi come scientifica, gli altri. In questo sproporzionato e megalomanico psicodramma pandemico, continuamente esasperato dall’ininterrotta amplificazione mediatica, chi ha perso è stata la possibilità del genere umano di considerarsi specie evoluta, capace di trovare strategie per favorire efficacia e circolarità nella comunicazione e nel confronto, in grado di ascoltare le posizioni differenti, di valorizzare quelle parti di verità, piccole o grandi di cui il discorso dell’altro si fa portatore. E invece le paure sono diventate aggressività, l’aggressività proiezione, le idee ideologie, i dubbi farneticazioni e il confronto tra punti di vista differenti e sensazioni diverse rispetto a quello che stavamo vivendo si è immiserito e mortificato sulle macerie di una guerra psicologica che ha pervaso molti degli spazi della comunicazione pubblica e privata.
Ci consideravamo razza colta e progredita, ci siamo riscoperti, grazie – o per colpa – di un virus, tribù selvagge, arcaicamente orientate ad aggredire l’altro pur di affermare con orgoglio e pienezza di sentimenti egoici il primato della propria distorta e parziale visione del mondo. Perché questa è un’altra delle cose che la pandemia potrebbe averci invitato a considerare: che nel mondo tremendamente complesso che abitiamo, la verità più che appannaggio totale, unico e incontrovertibile del singolo individuo e di coloro che la pensano esattamente come lui, è il frutto di un costante e delicato lavoro di convergenza e di elaborazione che richiede umiltà, profondità, pazienza, intuizione e capacità di condivisione. Che almeno questo speriamo di poterlo riconsiderare, tutti insieme e per il bene comune.