I primi documenti che attestano sintomi riferibili alla patologia psichiatrica risalgono all’antico Egitto. Gli antichi egizi ritenevano che la sede dei sintomi, che oggi definiamo psichiatrici, fosse il cuore e non ponevano distinzione tra malattie organiche e mentali.
La storia della medicina come disciplina autonoma rispetto alla filosofia e alla religione inizia con i Greci i quali avviarono il processo di affrancamento dell’interpretazione dei sintomi della malattia mentale dalla superstizione e dalla causalità mistico-religiosa. Nell’antica Grecia l’opinione popolare riteneva la patologia mentale frutto dell’influsso di divinità malvagie e persecutorie quali Mania o Lyssa, Dioniso, Ecate o le Furie. Il ciclo dei poemi Omerici fa riferimento di frequente alla follia dei protagonisti. Le passioni degli eroi omerici, inclusa la follia, sembrano però indotte dall’esterno ed hanno il carattere della transitorietà. L’ira di Achille e l’offesa di Agamennone sono il frutto di Ate (in greco Ατη, rovina, inganno, dissennatezza), dea dell’inganno che cammina sul capo dei mortali inducendoli in errore. È sempre Ate che spinge al peccato di tracotanza, la hybris, che introduce una prima implicazione di ordine morale, allorché richiama sull’eroe empio il castigo divino.
La follia è elemento ricorrente anche nella tragedia classica. Ricordiamo la follia sanguinaria delle Baccanti, la follia di Oreste, quella di Aiace. Platone nel Fedro descrive quattro tipi di follia:
- La follia profetica: Caratteristica dei veggenti e connessa alla divinazione profetica. Ne è un esempio la trance della Pizia dell’oracolo di Apollo a Delfi.
- La follia telestica: O rituale, era la follia dei riti dionisiaci, caratterizzata da un fine liberatorio e indotta da musica, canti e balli orgiastici.
- La follia poetica: Dovuta alla possessione delle Muse, concedeva l’ispirazione poetica.
- La follia erotica: Collegata all’amore e all’eros.
Ippocrate introdusse il concetto innovativo che la patologia mentale, così come quella fisica, dipendessero da circostanze relative all’individuo e non all’influsso divino. Nel trattato Sulla malattia sacra Ippocrate tratta della follia nella descrizione dell’epilessia, chiamata «il morbo sacro» e considerata fino a quel momento frutto della possessione divina. Nel trattato vengono enumerati minuziosamente i sintomi della malattia ma soprattutto questa patologia offre lo spunto all’autore per una presa di posizione nei confronti delle concezioni tradizionali sulla malattia mentale. Ippocrate afferma: «Così stanno le cose a proposito della cosiddetta malattia sacra. A me non sembra affatto che sia più divina né più sacra delle altre malattie, ma come le altre malattie essa ha una causa naturale e da essa deriva. Gli uomini invece la considerano divina per la loro incapacità e per il suo carattere straordinario, perché non assomiglia in nulla alle altre».
Nel I secolo d.C., a Roma, Celso trattò della follia nella sua opera De re medica. Celso riprende i concetti sulla malattia mentale di Ippocrate, precisando l’uso di alcuni termini: «insania» per indicare la mania e il furore, «frenesia» che era sempre accompagnata da febbre, «delirio» che poteva essere allegro o triste, parziale o generale. Celso inoltre approfondì l‘uso di strumenti terapeutici per la patologia mentale quali la musica, la lettura, il dialogo.
Seneca considera la follia l’effetto di chi è preda di passioni incontrollabili. Nelle Lettere a Lucilio afferma: «…nessun nemico ha portato tanta offesa agli uomini quanto le loro passioni. Questa sfrenata e pazza sete di piacere sarebbe imperdonabile se gli stessi colpevoli non soffrissero le conseguenze delle loro azioni. E a buon diritto questa loro sfrenatezza li tormenta: infatti ogni passione che oltrepassa i limiti stabiliti dalla natura diventa fatalmente smisurata e incontrollabile. L’uomo moderato trova nella natura il suo limite, mentre le vuote fantasie che nascono dalle passioni sono sconfinate.»
Un altro elemento di rilievo nella storia della malattia mentale, in epoca romana, furono gli aspetti giuridici legati ad essa. Coerentemente alla grande tradizione giuridica romana infatti, la presenza di un disturbo mentale al momento della commissione di un reato fu ritenuto un fattore attenuante, tuttavia il giudizio sulla sanità mentale era affidato ai giudici e non a medici.
Durante il medioevo vi fu il ritorno ad una visione della malattia mentale come frutto dell’influsso del magico e di potenze sovrannaturali. Spesso i malati mentali venivano considerati indemoniati o sotto il controllo del diavolo e in quanto tali non passibili di cure mediche ma dell’intervento di maghi, sacerdoti o inquisitori. Il termine «follia» nasce nel medioevo come voce onomatopeica che indica il vuoto o il mantice. Il folle è spesso rappresentato con la bocca aperta con in mano il mattarello (il bastone del matto). Nelle corti feudali ha il ruolo di giullare, ha il compito di far divertire e non è soggetto a divieti.
Nell’oriente arabo notevoli progressi si ebbero nell’organizzazione dell’assistenza ai malati mentali con la creazione di specifici reparti per questi pazienti negli ospedali di Baghdad. Strutture simili sorsero successivamente anche in Europa a Parigi, Montpellier, Zurigo.
Altro fenomeno tipico del Medioevo sono le cosiddette “epidemie psichiche” che investirono larghe fasce della popolazione, come ad esempio i flagellanti, i tarantati, o veri e propri stati di possessione di interi gruppi nei conventi. Di particolare interesse sono le epidemie di Fuoco di Sant’Antonio (nome con cui si indicava anche l’infezione da Herpes Zoster), dovute in realtà all’intossicazione da ergot o Claviceps purpurea un micete in grado di parassitare le graminacee tra cui la segale con cui veniva preparato il pane. L’intossicazione da ergot era in grado di determinare allucinazioni che portavano chi ne era affetto a mettere in relazione la malattia con immaginarie forze demoniache o soprannaturali, non essendone conosciuta la causa. La malattia veniva contratta nei paesi del nord Europa, dove veniva utilizzata la segale contaminata per la preparazione del pane. I malati, recandosi in pellegrinaggio verso i santuari dedicati a Sant’Antonio si spostavano verso sud cambiando alimentazione e mangiando pane di grano attenuavano o eliminavano i sintomi dell’intossicazione. Tale effetto veniva però attribuito all’operato miracoloso di Sant’Antonio.
Nel Rinascimento si assiste alla nascita di una nuova visione del malato di mente. In Elogio della Follia Erasmo da Rotterdam descrive il folle come il portatore di una diversa visione dell’esistenza e come tale degno di essere rispettato. Questo filone di pensiero percorrerà la storia sfociando nel novecento nella fenomenologia di Husserl e di Jaspers. Paracelso, durante il cinquecento, dedicò alla psichiatria il trattato Delle malattie che ci derubano della ragione in cui innanzitutto restituiva alle malattie mentali la loro iniziale base naturale, quindi propose una principale distinzione di tali patologie in cinque tipologie differenti ovvero: epilessia, mania, “pazzia vera e propria”, ballo di San Vito e suffucatio intellectus. La pazzia vera e propria viene divisa in altre 5 categorie ovvero: lunatici, insani, vesani, melancholici e obsessi ed è originata da cattive influenze astrali o dallo sperma difettoso del padre.
Nel Seicento si assiste ad una ulteriore laicizzazione della malattia mentale tuttavia inizia in questo periodo il lento ma progressivo slittamento del malato mentale in soggetto antisociale e perciò costretto al totale isolamento fisico. I regimi assolutistici favorirono campagne di internamento di poveri e devianti sociali in strutture apposite come la Salpêtriere a Parigi.
Nel corso del Settecento vennero fatti importanti progressi in campo psichiatrico nel rinnovato clima culturale dell’Illuminismo. Caddero definitivamente le concezioni che vedevano il malto psichiatrico come un indemoniato da redimere con le fiamme, e si posero le basi per una innovativa nosografia dei disturbi psichiatrici oltre ad un miglioramento della loro assistenza. In tal senso il fiorentino Vincenzo Chiarugi fu una figura essenziale che dette un contributo fondamentale alla psichiatria del tempo. Restituì al folle, in termini scientifici e culturali, l’identità e la dignità di malato, cioè di persona bisognosa di cura e di asilo ospedaliero.
Figlia dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese, la psichiatria, ai suoi esordi, si presenta come una disciplina medica e allo stesso tempo umanitarista, tesa a separare i malati di mente dai cosiddetti devianti– vagabondi, prostitute, delinquenti, alcolizzati e così via – con i quali sino allora erano stati confusi, al fine di assicurare loro cure e assistenza a carico dello Stato. Prima del 1838 infatti i malati psichiatrici ricoverati per acuzie presso gli ospedali generali, se considerati incurabili, venivano inviati in una sezione speciale insieme a individui pericolosi o emarginati. È nel 1838 che in Francia viene promulgata la legge sull’assistenza agli alienati – futuro modello di tutte le legislazioni europee in materia – con la quale si sancisce una realtà istituzionale che, in virtù della sua stessa logica, vìola i diritti dei malati di mente come cittadini.
Dall’inizio del XIX secolo, passionalità ed irrazionalità, messi da parte dall’Illuminismo, diventano oggetto di vero e proprio culto ed in campo medico si fa strada l’idea della centralità delle passioni nell’eziologia della malattia mentale. L’uomo non è più sola razionalità.
Esquirol, psichiatra francese, formula una teoria per cui il folle può essere curato proprio perchè i suoi disturbi sono dovuti ad un «eccesso» di passione, ad una passione non governata.
Partendo da questo assunto, la cura dei pazienti non può limitarsi ad una serie di ragionamenti e trattamenti imposti ma dipende dalla direzione delle «passioni».
I trattamenti più severi non rappresentano quindi il fondamento terapeutico ma uno strumento a cui ricorrere solo in circostanze estreme.
Nella seconda metà del 1800 si afferma il principio riduzionistico secondo cui le malattie mentali hanno cause organiche e non affettive. La cura della sofferenza psichica passa attraverso lo studio di anatomia e patologia cerebrale allo scopo di isolare le cause di ogni singola malattia e definire specifiche terapie.
Emil Kraepelin, psichiatra tedesco, superando tale impostazione attraverso un più complesso approccio alla psichiatria, coniuga l’anatomia cerebrale e la neurologia alla psicologia sperimentale ed all’indagine della storia del paziente e produce la prima importante classificazione secondo la quale le malattie mentali gravi si dividono in dementia preacox e psicosi maniaco-depressiva.
Dall’inizio del XX secolo, in base alla concezione organica della malattia mentale, vennero introdotti nuovi trattamenti quali lobotomia frontale ed elettroshock.
La teoria di Freud, per la quale la differenza fra normalità e follia risiede più nell’intensità e nella quantità sintomatologica che nella qualità, aprì la strada per un progressivo allontanamento della psichiatria dalle scienze puramente organicistiche.
Cambiamenti importanti nella modalità di rapportarsi alla malattia mentale furono possibili grazie all’introduzione di psicofarmaci, antidepressivi, benzodiazepine e neurolettici a metà degli anni ’50, e consentirono di iniziare a trattare pazienti affetti da gravi disturbi psicotici anche fuori dal contesto manicomiale.
Si afferma, fra gli anni ‘60-’70, l’idea che la malattia mentale possa essere collegata a fattori sociali, posizione sostenuta dalla psichiatria sociale e dall’antipsichiatria, secondo la quale la società etichetta come malato mentale colui che tenta di opporsi all’oppressione ed al conformismo del sistema.
Qualsiasi trasgressione alla norma sociale, anche originale e creativa, viene etichettata come follia.
Negli anni ’70 infine si assiste ad un’aspra critica alle istituzioni manicomiali, accusate di punire, attraverso elettroshock e misure costrittive, persone in precedenza già punite da famiglia e società poiché non adeguate alle regole. Questi concetti e eventi hanno portato alla concezione che abbiamo oggi della malattia mentale.