Quando una coppia si rivolge ad un terapeuta può essere difficile, per quest’ultimo, non prendere le parti di uno dei membri della coppia. Questo avviene poichè il terapeuta, uomo tra gli uomini, tende a formarsi il suo giudizio e opinione, e poi a seguire indefessamente il giudizio che si è formato. Lo stesso avviene quando al posto della coppia si mettono un figlio e la madre, o due fratelli, o ancora un manager che parla dei suoi problemi con il suo capo, ed anche quando è presente una sola persona, che parla dei suoi problemi con le più varie realtà (ad esempio con l’universo aziendale nel quale è inserita).
Questa dinamica è l’ottimo preludio alla “collusione”, ovverosia al fare gioco-forza con la dinamica problematica, quindi ad essere incapaci di porsi ad un livello logico superiore per condurre la persona a mettere in atto delle soluzioni.
In altri termini, il terapeuta, con le migliori intenzioni, finisce con il partecipare alla dinamica del problema invece che a quella della soluzione.
In tutte i libri e in tutte le Università si parla di collusione, ma è raro trovare spiegazioni e considerazioni utile a capire cosa rende possibile la collusione, e dunque come evitarla.
Per questo motivo, mi sia consentito estrapolare un passo da una delle mie pubblicazioni (Psycholùogy: Psicologia, Comunicazione – Cambiamento), dedicata all’illustrazione del particolare modello di intervento che utilizzo(Psicolùogia o Nuova Psicologia), orientato non alle teoriche interpretazioni dei problemi umani, bensì alla loro concreta soluzione (la radice λύω, LUO, indica appunto l’azione di liberare, risolvere, sciogliere) . In questo testo, ormai utilizzato nelle facoltà di Medicina delle principali Università Italiane, si parla anche di questa antichissima e sempreverde questione. Tale problematica, infatti, ci riguarda tutti, dai pazienti ai terapeuti più o meno esperti.
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“[…] è evidente che i problemi con i quali oggi siamo chiamati a confrontarci si presentano a noi attraverso i nostri pazienti, potremmo dire sottobraccio. Gli uni non esistono indipendentemente dagli altri. Ciò significa che, quando noi ci confrontiamo con tali problemi, essi sono già sorti. Ci troviamo perciò di fronte ad una persistenza del problema. Tale persistenza è come un cerchio. Di fronte a questo cerchio è facile cadere nel grossolano ma sempreverde errore – che è a un tempo tecnico, metodologico ed epistemologico – di stabilire un relazione causale lineare e progressiva. Ma un cerchio, una volta chiuso, non ha ne principio né fine.”
I problemi che affrontiamo in ambito psicologico-psicoterapeutico:
“[…] impediscono – o impedirebbero – quindi di stabilire che l’evento a sia precedente all’evento b, e che quest’ultimo sia determinato dal verificarsi di a. Questa doppia forzatura implica infatti l’interruzione arbitraria della continuità del cerchio. Tutto questo era già iscritto nel frammento Eracliteo:
Su di un cerchio ogni punto di inizio può anche essere un punto di fine.
Ironia della sorte, molti conflitti familiari sono conflitti relativi alla decisione di cosa abbia causato cosa (il figlio è aggressivo perché i genitori lo sgridano; i genitori lo sgridano perché è aggressivo – il marito non fa nulla perché fa tutto la moglie; la moglie fa tutto perché il marito non fa alcunché): quando l’operatore assume questa stessa prospettiva, non fa altro che colludere con quella stessa dinamica che ha condotto al problema, e che lo mantiene; rientra cioè nella stesso modello di interazione disfunzionale che nutre o crea la problematica in essere, ed a questo punto ogni cosa che farà potrà essere o inutile o peggiorativa, in quanto diviene parte della struttura del problema stesso.
Mi viene in mente una vecchia storiella berbero-ebrea – Una donna compra uno specchio al suk. Non ha mai posseduto nulla del genere e ne è molto contenta. Il marito, vedendo lo specchio e non avendo mai visto nulla del genere, si convince che colui che vi è riflesso sia l’amante della moglie, e subito si arrabbia. Viene chiamato il saggio rabbi, per dirimere la questione. Ma questi, vedendosi specchiato, subito si arrabbia anch’egli. “Perché farmi venire fin qui, se il rabbino ce l’avevi già?”.
Ecco un esempio di circolarità disfunzionale tra problema e soluzione che mantiene il problema!
Come abbiamo anzidetto, il metodo deve seguire l’oggetto. Persino in campo matematico i principi logici classici sono stati superati, perché impedivano di adattarsi ai loro oggetti. Anzi si può costruire la matematica senza fare nemmeno uso dell’ipotesi di un’esistenza trascendente delle entità matematiche: quel che ha fatto Luitzen Egbertus Jan Brouwer. Esistono proprietà matematiche che non possono essere giudicate – è quel che dimostra Brower, violando il principio del terzo escluso, per cui per ogni enunciato F, o vale F o vale non F. Brower le definisce “sfuggenti”.
Come potrebbe questo non valere, a fortiori, per gli esseri umani,
che da sempre sfuggono ad ogni rigida teoria!
Così, un metodo troppo lineare e razionale non potrà mai calzare sugli esseri umani, i quali vivono in costante contraddizione. I fenomeni umani sono circolari più che lineari. Ecco allora che le logiche di intervento, per essere effettive, dovranno essere non lineari. Queste logiche di intervento, già molto avanzate in campo clinico – ciò per merito di una “illuminata” minoranza – violano la logica ordinaria, ma senza perderne in rigore. Anzi esse possono dirsi decisamente più rigorose ed avanzate, meglio adattandosi ai loro oggetti.
Il problema diventa allora come una serratura. Ciò mi consente di riprendere la nota metafora della chiave di Ernst Von Glaserfeld: “una chiave ‘è adatta’ se apre la serratura. L’essere adatta descrive l’attitudine della chiave, non della serratura.”
Per questo io credo, come ho scritto altrove, che:
“La vera etica del terapeuta è l’etica della chiave (e della serratura), e quando non trovi una chiave adatta devi aver pronto il materiale da scasso, perché non c’è nulla di male nel limare una serratura che la persona cambierà. È vero il contrario: solo quando sentiamo che qualcosa ha smesso di funzionare ci disponiamo a cambiarlo”.
Augurandomi che il giovane psicologo, così come il terapeuta esperto,
fino al semplice e sempre benvenuto curioso,
abbia trovato in queste parole utili spunti di riflessione,
non mi resta che salutarlo.