La superstizione e il pensiero superstizioso: tra “normalità” e “patologia”

La penna fortunata, il piccolo rito prima dell’esame, il Segno della Croce per esorcizzare un pensiero cattivo, il “non succede, ma se succede…”, previsioni sinistre che potrebbero condizionare l’esito delle nostre azioni. I pensieri superstiziosi sono tanti, alcuni li consideriamo “normali”, altri ci insospettiscono: ma cos’è esattamente la superstizione? Qual è la linea di confine tra una superstizione “sana” e una superstizione “patologica”?

Possiamo definire superstizioso un nesso di causa effetto individuato tra due eventi che, secondo la cultura di appartenenza, sono ritenuti indipendenti. Tale nesso causale non può essere dimostrato secondo le modalità condivise dalla cultura di appartenenza.

Tale definizione evidenzia il ruolo fondamentale della cultura: chi definisce un pensiero superstizioso è innanzitutto il contesto socio-culturale. Parlare con una pianta affinché dia frutto è considerato, nella cultura occidentale, un comportamento superstizioso e alquanto bizzarro, mentre in una cultura animista, un comportamento normale; ricevere una “grazia” dal Signore, in seguito ad una preghiera, è considerato da alcuni una credenza superstiziosa, da altri perfettamente plausibile. Ne deriva che, anche la concezione di normalità e patologia psichica, così come di normalità e patologia di un pensiero superstizioso, non hanno valore ontologico, non sono preesistenti, ma sono costruiti: ciò non significa che non esistano, significa che la linea che divide un pensiero “normale” da un pensiero “patologico” è tracciata sulla base di criteri squisitamente socio-culturali e statistici. Ma come nasce il pensiero superstizioso?

Nel 1948 Burrhus Skinner realizzò un esperimento molto particolare. Mise alcuni piccioni in una gabbia, collegata a dispensatori di cibo che lo erogavano a tempo; notò che i piccioni associavano un proprio comportamento, come ad esempio roteare la testa in avanti o toccare un punto della gabbia, all’erogazione (a tempo) di cibo. Skinner concluse che i piccioni avevano probabilmente sviluppato un comportamento superstizioso, credendo che alcuni loro movimenti specifici causassero l’erogazione di cibo.

Ma gli esseri umani non sono piccioni. Devenport e Holloway ripeterono questo esperimento con i ratti, mammiferi con un cervello molto più simile all’uomo, e scoprirono che questi animali non si auto-ingannavano stabilendo false connessioni. I ricercatori conclusero che, probabilmente, l’evoluzione ha dotato i mammiferi dell’ippocampo, una struttura cerebrale in grado di prevenire il formarsi di relazioni di causa-effetto troppo “facili”. Queste evidenze sono utili, ma chiaramente non sufficienti: perché i comportamenti superstiziosi sono presenti anche nell’uomo? Perché gli individui, pur capendo che due eventi non possono (sempre secondo il nostro esame di realtà, costruito a livello statistico-culturale) essere dipendenti continuano a mettere il “maglione fortunato”, oppure non hanno il coraggio di parlare della morte di una persona cara, per paura di “augurargliela”?

Credits to: Sara Pipeschi

La superstizione può essere concepita come una difesa, cioè una ricerca di legami di causa-effetto per evitare l’angoscia di una fondamentale imprevedibilità degli avvenimenti. Fare quella cosa, mettere quel vestito, può darci l’illusione di controllare un evento che, di per sé, è incontrollabile, o dipende da altri fattori. La superstizione ci dà un controllo onnipotente in un mondo fantastico, una finestra di pensiero dove il verificarsi di un evento dipende soltanto da noi.

Come sottolinea Fonagy i bambini, fino ai tre anni, pensano utilizzando il principio dell’equivalenza psichica, che non opera una differenza tra come le cose vengono percepite e quello che realmente sono; il pensiero opera direttamente sulla realtà. Dopo i cinque anni i bambini sviluppano la modalità del far finta: imparano cioè che il pensiero può essere una delle possibili interpretazioni della realtà, e che non c’è un rapporto diretto tra pensiero e realtà; queste intuizioni si realizzano attraverso il gioco.

La superstizione può quindi essere per noi una finestra aperta su questa esperienza infantile: così come il gioco aiuta il bambino a sperimentare il suo potere sul mondo, così la fantasia aiuta noi a gestire le nostre angosce relative all’incertezza. E questo non ha nulla di disadattivo o patologico.

I problemi sorgono quando la fantasia predomina sulla realtà, cioè quando il principio di equivalenza psichica domina la vita di una persona: ed ecco che una persona dovrà lavarsi le mani tre volte perché gli venivano in mente bestemmie durante la Messa, oppure si vede costretta ad andarsene da una festa perché sa esattamente che quelle persone in terrazzo ridevano, sicuramente perché parlavano male di lui.

Credits to: Sara Pipeschi

Ecco, quello che facciamo, o che ci auguriamo di fare, è dare alle persone la libertà di godere delle proprie fantasie superstizione, ma anche, e forse soprattutto, sapere accettare che ci sono cose che non possiamo controllare, che vanno così e basta. Abbandonare il controllo, superstizioso o no, vuol dire certamente esporsi a più incertezza, ma anche lasciare al caso il fardello della responsabilità che, troppo spesso, ci prendiamo in spalla.

Bibliografia:

Skinner B. F (1992). Superstition in the pigeon. J. Ex. Psychol., Vol. 121, No. 3, pp. 273-274.

Devenport L.D. and Holloway F.A. (1980). The Rat’s Resistence to Superstition: Role of the Hippocampus”. J. Comp. Physiol. Psychol. Vol. 94, pp. 691-705.

Allen, G., Fonagy, P., Bateman, A. (2012) La mentalizzazione nella pratica clinica. Milano: Raffaello cortina editore.

 

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