Favola del porcospino di Schopenhauer – La distanza nelle relazioni umane

favola del porcospino

La Cura Schopenhauer di Irvin Yalom è un libro che parla di come affrontare la morte, della psicoterapia e di Schopenhauer.

Uno psichiatra psicoterapeuta affronta un ex paziente che nel frattempo ha deciso di cambiare la sua vita e diventare un counselor filosofico. Philip, l’ex paziente del dottor Julius, si è preso una bella cotta per il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, fino al punto da introiettare tutti i suoi insegnamenti e diventarne la reincarnazione.

Come potete immaginare non è facile vivere con quel bagaglio di pessimismo. Tuttavia la relazione tra lo psicoterapeuta e il filosofo sarà proficua per entrambi.

Irvin Yalom riesce ad amalgamare costrutti e strategie psicologiche con il pensiero del filosofo tedesco mostrando la profonda interconnessione che scorre tra le due discipline.

Di seguito riporto un estratto tratto da un capitolo del libro in cui si racconta la favola del porcospino di Schopenhauer e si parla dei misantropi.

La favola del porcospino, uno dei brani più noti di tutta l’opera di Schopenhauer, ci comunica la sua visione gelida delle relazioni umane.

Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero, vicini, per proteggersi con il calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati tra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione. Così il bisogno di società, che scaturisce dal vuoto e dalla monotonia della propria interiorità, spinge gli uomini l’uno verso l’altro; le loro molteplici repellenti qualità e i loro difetti insopportabili, però, li respingono di nuovo l’uno lontano dall’altro.

In altre parole, tollerare la vicinanza solo quando è necessaria per la sopravvivenza ed evitarla ogni volta che è possibile.

La maggior parte degli psicoterapeuti contemporanei raccomanderebbero senza esitazione una terapia per delle posizioni così estreme dal punto di vista dell’isolamento sociale. In effetti il grosso della psicoterapia pratica si rivolge verso posizioni interpersonali problematiche, non solo l’isolamento sociale ma il comportamento sociale disadattato in tutti i suoi possibili colori e sfumature: autismo, isolamento sociale, fobia sociale, personalità schizoide, personalità antisociale, personalità narcisistica, incapacità di amare, autoesaltazione, o il suo opposto, l’annullamento delle proprie capacità.

Sarebbe stato d’accordo Schopenhauer? Considerava i suoi sentimenti verso le altre persone come una forma di disadattamento? È del tutto improbabile. I suoi atteggiamenti erano così  vicini a come egli era realmente, così profondamente radicati in lui, che mai li considerò un inconveniente. Al contrario, considerava la misantropia e l’isolamento come una virtù. Notiamo, per esempio, la conclusione della favola del porcospino: “Colui, però, che possiede molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli”.

Schopenhauer credeva che un uomo con forza o virtù interiori proprie non avesse necessità di riceverne dagli altri; un simile uomo era autosufficiente. Questa tesi, strettamente collegata alla fede incrollabile nel proprio genio, gli servì per tutta la vita per razionalizzare il proprio tentativo di evitare la vicinanza con gli altri. Schopenhauer affermò spesso che la sua posizione nella classe per gerarchia più nobile dell’umanità, i filosofi, imponeva l’imperativo di non sperperare le proprie doti in oziosi rapporti sociali, ma di volgerli invece al servizio del genere umano. “Il mio intelletto”, scriveva, “non è appartenuto a me, bensì al mondo”.

Questo brano è tratto dal libro La Cura Schopenhauer di Irvin Yalom