Coronavirus e Paura, una crisi non solo virologica

“[…] tutta l’infelicità degli uomini viene da una sol cosa, e cioè dal non saper rimanere tranquilli in una camera.” (B. Pascal, Pensieri, Santarcangelo di Romagna, Rusconi, 2014, p.157)

Impressa come fosse un’epigrafe, riteniamo che la frase ivi in apertura propostavi sia efficiente per descrivere il momento – difficile e dal dubbio comfort – che, tutti nel Paese, stiamo vivendo.

Praticamente rinchiusi in quella che è la nostra umile – si: sicuramente umile – dimora, passiamo la maggior parte del tempo tentando di ammazzarlo in qualsiasi modo, anche il più semplice: andiamo alla caccia di un purchessia divertissement, sempre rifacendoci al Blaise.

C’è chi riscopre il piacere della condivisione famigliare, chi approfitta di questo tempo libero per dedicarlo ad un’intima introspezione che spera possa essergli utile non appena tutto questo sarà finito, chi si dedica a facezie videoludiche, chi, in modo ipocondriaco, misura ogni ora la propria temperatura corporea e fa una rassegna dei propri sintomi inesistenti e chi, come noi, tenta di riflettere filosoficamente, strizzando l’occhio anche alla materia psicologica, circa quanto sta accadendo.

Prendiamola con Filosofia”, insomma.

Filosoficamente parlando, riflettendoci, il protagonista indiscusso di tutta questa situazione non è tanto il virus Covid-19 che sta mettendo piede dappertutto, ma la Paura: la grande piaga che sta divorando il popolo Italiano non è il virus in quanto tale (dando anche uno sguardo ai dati attuali, 14 Marzo 2020[1] è la data di stesura del presente contributo, non risulta decisamente esserlo), bensì la paura collettiva nei confronti dello stesso.

La paura di contrarre il virus, tra l’altro rinomatamente non letale (se non in particolari e specifici casi), non deriva tanto dalla gravità sintomatologica che il virus porta con sé, bensì dalla totale ignoranza collettiva circa l’agente patogeno. Pensiamo solamente come vi siano malattie decisamente più letali – e croniche, magari – che però non generano una tale aprioristica paura come la pandemica diffusione di un virus che, in persone dalle condizioni fisiologiche, si manifesta in modo un po’ più aggressivo di una semplice influenza; questo perché, le suddette malattie, sono socialmente conosciute e assimilate – conoscitivamente ed anche esistenzialmente, potremmo dire, parlando – da più tempo.

Il Coronavirus – o meglio, com’è conosciuto dalla comunità scientifica: il SARS-CoV-2 – è arrivato, piombato, nella nostra quotidianità in modo dionisiaco, scombussolandola, ribaltandola, disordinandola, senza darci occasione minima di poter prendere consapevolezza e coscienza del problema che ora, repentinamente, stiamo affrontando al meglio delle nostre possibilità, tanto individuali quanto collettive. Non c’è stato alcun momento di maturazione conoscitiva della malattia.

“[…]basta ben giudicare, per ben fare, e giudicare meglio che si può, per fare anche meglio che si può, e cioè per acquistare tutte le virtù, e con esse tutti gli altri beni[…]” (Cartesio, Discorso sul Metodo, Firenze/Milano, Bompiani, 2018, p.141): è proprio questo quanto è mancato, quanto attualmente ci manca, un giudizio determinante della cosa, della malattia che stiamo cercando di sconfiggere; la conseguenza di questa deficienza gnoseologica, come ci dice Cartesio, è la mancata acquisizione delle virtù – calma, atarassia, placidezza – che ci restituirebbero “tutti gli altri beni” (tranquillità, serenità).

Al contrario siamo in preda della percezione concreta, dilaniante, spaesante, claustrofobicamente asfissiante, della morte: della possibilità che questa possa trovarsi dietro l’angolo, attaccata battericamente sullo schermo dei nostri telefoni, sul nostro mouse, sulla nostra scrivania, sulla nostra tavola, sulle nostre posate, sulle nostre mani, all’interno di noi. “[…] non è una cosa naturale morire. E da quando sapevo che stavo per morire, più niente mi sembrava naturale, né quel mucchio di carbonella, né quella panca, né il brutto muso di Pedro” ; “Nello stato in cui mi trovavo […] non tenevo più a niente, in un certo senso ero calmo. Ma era una calma orribile[…]” (J.P. Sarte, La Nausea/Il Muro, Milano, Narrativa Club, 1982, p.184/187). Sentiamo l’esser-ci della possibilità della morte come fosse un miasma che s’aggira ovunque osiamo muoverci e mettere mano.

Eppure – qui il paradosso, qui l’altra faccia della realtà – quanto stiamo affrontando non rappresenta letalità certa, anzi, l’abbiamo sopraddetto, è una letalità tutta possibile solo nel particolare e circoscritta all’individuo. Ma allora da dove scaturisce questa paura, questo sentimento di morte, questo strozzante accusare distopiche allucinazioni circa il prossimo futuro?

Secondo Spinoza, “la conoscenza del primo genere (quella derivata esclusivamente dai sensi, dall’esperienza sensibile, quella empirica, ndr) è l’unica causa della falsità”[2], ossia: la conoscenza frettolosa, superficiale e non totalmente attendibile dei soli sensi senza la ragione, senza la riflessione di quanto si percepisce, rende visibili le cose, e la realtà, “in modo mutilato”(Spinoza).

Collegando la riflessione spinoziana circa il primo grado – di tre – di conoscenza al nostro tema di attualità, ci vien reso immediatamente evidente dove risieda e nasca la paura incontrollata: la non-totale-conoscenza di quello che stiamo affrontando ci regala una realtà parzialmente vera, “mutilata”. Non abbiamo una presa conoscitiva totale sull’argomento, e questo ci terrorizza, poiché provoca un forte senso di disorientamento, di bivio, d’incertezza, di confusione.

Tutto questo è, tra l’altro, alimentato fortemente dalla saturante sovra-informazione che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, riceviamo circa il virus: contagi, morti, picco epidemico e quant’altro. Forse siamo anche stanchi di sentire tutto questo, forse siamo anche stanchi e saturi di questo mondo che sembra essersi oscurato. Stiamo sentendoci non più padroni del mondo, ma gettati al mondo, come ha riflettuto Martin Heidegger.

La disperazione e la paura incontrollata, in ogni caso, non sono comunque la risposta: reagire consapevolmente – magari anche calmandoci e riflettendo con lentezza e fermezza, dopo che questo mondo in preda ad una tachicardica velocità ci sta inghiottendo – facendo leva sul pensiero che, ora come ora, siamo al sicuro, dovrebbe rasserenarci.

Assetati, affamati, voracemente desiderosi di conoscenza, arriveremo anche alla piena comprensione di quanto oggi ci minaccia e che consequenzialmente domani non lo farà più. L’importante, nel frattempo, è mantenere la calma, essere lucidi, ragionare(come vorrebbe Spinoza) e tentare di fermare le passioni che ci rendono turbolenti(come vorrebbe Cartesio).

Ce la faremo, come sempre, anche stavolta, anche la prossima, insieme.

NOTE

[1] Speriamo che il contributo venga preso in considerazione in quanto riflessione filosofica circa un tema decisamente attuale: l’autore non è un epidemiologo, infettivologo o un virologo; quello di cui vogliamo parlarvi s’addentra nei meandri della percezione umana del problema, e speriamo che venga letto e preso come tale.

[2] B.Spinoza, Etica, Firenze/Milano, Bompiani/Giunti, 2017, p.199

[divider] Altre mie pubblicazioni: https://independentscholar.academia.edu/SimoneSantamato

Leggilo anche qui: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/filosofia/coronavirus-e-paura/