La prigione di Philip Zimbardo (parte 1)

Uno dei più celebri e controversi esperimenti in psicologia ha visto 9 studenti universitari rinchiusi in una finta prigione allestita negli scantinati di Stanford. Le guardie erano 9 loro coetanei, persone comuni senza alcuna caratteristica deviante rilevabile.

Una finzione programmata da Philip Zimbardo per due settimane, interrotta dopo soli 6 giorni: in così poco tempo si è assistito alla totale perdita di qualsiasi legame con la realtà, alla completa sottomissione da parte dei prigionieri e ad un’incredibile escalation di abusi di potere da parte delle guardie.

La nascita dell’esperimento

L’esperimento è stato ideato da Philip Zimbardo e si pone nella scia degli studi sul conformismo di Solomon Asch e sull’obbedienza di Stanley Milgram. Proprio all’università di Stanford Zimbardo conosce Milgram e con lui si confronta sin dal suo arrivo sulle differenze tra la ridente cittadina californiana in cui si sta affacciando al mondo della psicologia, rispetto al malfamato Bronx in cui è cresciuto.

Zimbardo comincia così ad interrogarsi sugli effetti del contesto sul comportamento delle persone e conduce un semplice esperimento: abbandona due auto identiche, usate ma ancora in buone condizioni, una in una strada del Bronx e l’altra a Palo Alto in California. Le lascia lì con il cofano spalancato e si apposta nelle vicinanze per osservare ciò che accade.

In meno di 10 minuti, nel Bronx una famiglia composta da uomo, donna e bambino ferma la propria auto per staccare e portare via la batteria dell’auto abbandonata. Nel giro di 48 ore, 23 atti vandalici si scagliano sulla prima auto, prima per rubare le parti “buone”, poi per distruggerne il relitto. Ciò che Zimbardo nota, è che gli autori di queste azioni non sono adolescenti o sbandati, ma il più delle volte uomini e donne ben vestiti identificabili nella classe media.

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A Palo Alto invece, a un isolato di distanza dall’Università di Stanford, in 5 giorni di osservazione nessuno ha compiuto un atto vandalico verso l’auto abbandonata. In un giorno in cui cominciò a piovere, un passante accorse per chiudere il cofano aperto, non si sa mai che il motore potesse bagnarsi! Al termine dell’esperimento, quando Zimbardo tornò con i suoi collaboratori per portare via l’auto, qualcuno chiamò la polizia per denunciare un tentativo di furto.

Da un parte il completo anonimato restituiva un’idea di completa e impunita libertà d’azione, dall’altra un senso di comunità, appartenenza e solidarietà che protegge nei confronti di qualsiasi danno. In questo modo Zimbardo sviluppa le sue riflessioni sulla psicologia del male.

Una prigione in un laboratorio universitario

Nel 1971 Zimbardo pubblicò un annuncio in cui si offriva un compenso di 15 dollari al giorno per partecipare ad un esperimento psicologico della durata di due settimane. 75 studenti risposero all’annuncio e fra questi ne furono scelti 24. I partecipanti furono valutati in modo tale da assicurare che si trattasse di persone “comuni”: incensurati appartenenti al ceto medio, maturi e psicologicamente equilibrati, di buona salute e che non nutrissero alcun tipo di attrazione verso comportamenti devianti.

In modo casuale si attribuì ad ognuno un ruolo predefinito: guardia o prigioniero. Tra questi 9 detenuti e 9 carcerieri avrebbero partecipato all’esperimento dal primo giorno, mentre i restanti 6 sarebbero rimasti a disposizione come riserve. Intanto, nello scantinato del dipartimento di psicologia della prestigiosa Università di Stanford, si stava allestendo la prigione di cui Zimbardo sarebbe diventato il direttore: tre piccole stanze che davano su un corridoio comune, definito il “cortile” della prigione, tutto senza finestre né orologi. In ogni stanza vi era giusto il posto per le tre brande dove avrebbero pernottato i detenuti. Dal cortile vi era l’accesso per un minuscolo sgabuzzino, grande abbastanza per contenere un adulto in piedi. Il bagno era esterno alla prigione e i detenuti lo raggiungevano bendati, guidati dalle guardie.

In questo contesto, Zimbardo voleva riprodurre il più possibile l’esperienza che i detenuti vivevano all’interno delle carceri statunitensi: anonimato, perdita di riferimenti sul tempo, sulla realtà esterna e sulla propria identità personale, senso di costrizione ed oppressione, disparità gerarchica tra guardie e detenuti. Per questo, previde una divisa per gli ospiti della sua prigione composta da una sorta di tunica, da indossare senza biancheria intima, su cui era stampato un numero. I detenuti sarebbero stati identificati solo attraverso tale numero, portando gradatamente le persone a non riferirsi più a se stesse utilizzando il proprio nome.

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Per aumentare il grado di anonimato i prigionieri dovevano inoltre portare sui capelli una calza di nylon che uniformasse le diverse capigliature e simulasse la rituale rasatura che avviene all’ingresso dei principali luoghi di reclusione: prigioni, orfanotrofi, caserme militari.

Infine, il senso di oppressione e costrizione sarebbe stato promosso da una catena portata alla caviglia destra. La dolorosa percezione del pesante e scomodo metallo sulla pelle nuda avrebbe rammentato ai detenuti in ogni momento del giorno e della notte che erano privati della libertà.

Le guardie invece indossavano una divisa color khaki in perfetto stile cinematografico, e portavano occhiali da sole per evitare che i prigionieri potessero vederli negli occhi, aumentando il senso di distanza di ruolo e personale. Anche se i carcerieri erano stati istruiti dal professore in modo tale da non attuare alcuna violenza fisica nei confronti dei detenuti, le guardie furono fornite anche di manganello, per dimostrare la violenza potenziale insita nella disparità di potere.

Allestito il set, l’ultimo passo fu quello di porre un videocamera per riprendere tutto quello che sarebbe successo nei giorni seguenti. A quel punto la prigione era pronta, e i detenuti furono prelevati dalle loro case da un vero poliziotto di fronte alla propria famiglia e al vicinato che osservava curioso, e portati su una vera auto della polizia alla prigione di Stanford.

Dalla finzione alla realtà

In un primo momento le guardie si sentivano strane a dare ordini a persone che fino al giorno prima avrebbero potuto essere sedute di fianco a loro in un’aula universitaria, persone con cui avrebbero volentieri condiviso una birra parlando degli interessi comuni. Per questo nel corso delle prime attività, come ad esempio “la conta”, un momento in cui si portavano i detenuti nel “cortile” per fargli ripetere ad alta voce i loro numeri identificativi, molti prigionieri ridevano, non seguivano gli ordini delle guardie e le prendevano in giro.

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Dopo un solo giorno, la neonata creatura di Zimbardo vide la prima rivolta dei detenuti, che si barricarono all’interno delle loro stanze insultando le guardie. I carcerieri erano in un momento di impasse, la loro posizione era apertamente sfidata da chi avrebbe dovuto essere sottomesso, e loro non potevano in alcun modo ricorrere alla forza per rimetterli al loro posto. Quello che potevano fare era ricorrere alla violenza psicologica per ristabilire l’ordine e il potere.

Prima di tutto spruzzarono degli estintori nelle stanze, costringendo i detenuti ad uscire. Poi misero in una stanza i detenuti “buoni” e nelle altre quelli “cattivi”, attuando un sistema di privilegi riservati solo a chi avrebbe obbedito agli ordini. Ma dopo pochissimo tempo, qualsiasi diritto elementare diventò un privilegio: chi non aveva preso parte alla rivolta poteva mangiare un buon pasto, andare al bagno e dormire sulla propria branda. Mentre gli agitatori della protesta avrebbero mangiato cibo scadente, espletato i propri bisogni in un secchio all’interno della cella senza la possibilità di svuotarlo, e sarebbero stati privati della branda.

In poco tempo la rivolta fu sedata e i detenuti tornarono ad obbedire alle guardie. Ma a questo punto una nuova mossa dei carcerieri spezzò ulteriormente la solidarietà del gruppo: si rimescolarono i detenuti nelle diverse stanze mettendo insieme buoni e cattivi. In questo modo i prigionieri privilegiati cominciarono ad essere visti come spie e allontanati dagli altri detenuti. Il sospetto serpeggiava tra i compagni, non c’era più alcuna identità di gruppo e quella personale era ormai ridotta al minimo.

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Ma questo era solo il primo giorno, e in pochissimo tempo i ricercatori furono i testimoni di violenze psicologiche sempre più atroci, messe in atto da persone “comuni” verso propri simili.

CONTINUA (parte 2)