LA POLTRONA DEL CAMBIAMENTO

Fin dalle origini della terapia psicanalitica è esistito un luogo, uno spazio in cui un analista ed un paziente si incontrano con una certa sistematicità per dare il via ad un processo di cambiamento basato sulla relazione e sulla trasformazione. Lo sviluppo di un setting (un luogo fisico, temporale e mentale) basato su regole, situazioni concrete e ben definite associate alla capacità del terapeuta di contenere ed interpretare ciò che il paziente porta fuori rappresenta la base della cosiddetta: “talking cure”.
Il senso di un setting ben strutturato sta nel favorire un benessere del paziente che si approccia alla conoscenza di una profonda parte di sé. La stanza dell’analista dovrebbe essere caratterizzata da un senso di tranquillità che venga trasmesso a chi si accomoda sulla “poltrona del cambiamento”.
Nel passaggio dall’attività di Freud a quella di Jung nei primi del Novecento si trova la sostanziale differenza nel setting, soprattutto nella disposizione di divani e poltrone. Freud infatti metteva a disposizione dei suoi pazienti un divano (il cosiddetto lettino su cui si basa la psicoanalisi ortodossa) su cui essi potevano sdraiarsi mentre lui sedeva dietro di loro. Jung invece favoriva il contatto vis à vis disponendo due poltrone l’una di fronte all’altra.
La variazione del setting agli albori della psicanalisi ha portato alla formazione ed all’evoluzione delle teorie psicoterapeutiche che oggi sono alla base del rapporto psicologo-paziente. Il setting rappresenta la risposta tecnica di ciò che viene fuori dal lavoro clinico con i pazienti in tanti anni di studio ed evoluzione del lavoro terapeutico. Il lavoro freudiano basato sulla figura del terapeuta come specchio che riflette ciò che il paziente proietta è sicuramente complesso poiché il silenzio dell’analista potrebbe essere segno della sua neutralità o della sua incapacità di interpretare ciò che emerge; ma questo non è conoscibile dal paziente che non “vede” il suo terapeuta. In psicoanalisi ci è voluto del tempo affinché si arrivasse a riconoscere che molto del cambiamento si basa sulla relazione tra terapeuta e paziente, pertanto questa va favorita poiché non tutto è costituito dal transfert ma anche dai sentimenti che suscita in noi il paziente che vive ed esprime (o non esprime chiaramente) un disagio.
Nella relazione vis à vis di cui Jung fu il primo sperimentatore attraverso una modalità terapeutica in cui sia il paziente che l’analista si trovano contemporaneamente in analisi la scelta di guardare o meno negli occhi il nostro interlocutore diviene naturale ed è un ottimo indice conoscitivo di ciò che sta avvenendo; così come le reazioni corporee rappresentano un’ulteriore espressione di disagio o benessere nella relazione. L’essenziale non è quello che riguarda i due attori della comunicazione (analista ed analizzato) ma ciò che accade tra di loro.

Ecco che la stanza dell’analista (il setting) con le sue caratteristiche entra di diritto a far parte del processo terapeutico; un luogo di condivisione e di crescita basate su ciò che le persone al suo interno saranno in grado di trasmettere l’un l’altro. La visione non è più quella di un onnipotente risolutore di enigmi o alleviatore delle sofferenze altrui; ma di un “guaritore ferito” che in prima persona è disposto ad entrare in relazione con le sofferenze ed i disagi soprattutto emotivi di chi gli chiederà aiuto, nell’ottica che il “tempo del cambiamento” è quello del paziente e che ogni paziente ha un proprio tempo. Noi non sappiamo dove ci porterà un percorso analitico, non lo possiamo sapere, esso inizia quando una persona soffre perché nella sua vita si ripetono sempre gli stessi fallimenti, non ci sono relazioni soddisfacenti con gli altri, sta male anche se non vorrebbe. La sofferenza ha a che fare in qualche modo con la sua storia e la sua struttura di personalità. È proprio in questa dimensione che un percorso analitico esprime il suo valore cioè quando il paziente si mette in gioco e comincia a fidarsi di chi ha di fronte, il terapeuta, con il quale intraprende un percorso che porterà al cambiamento senza sapere quale e come sarà ma che sicuramente rispecchierà le attese della persona.

Il divano, la poltrona o la sedia del cambiamento rappresentano una parte importante del setting, ossia quella struttura spazio-temporale e mentale che fa da cornice ad un percorso di scoperta ed autosvelamento di sé.
È necessario che il terapeuta, per dirlo con parole di Freud: “si approcci ad ogni caso come se fosse il primo” e partire dal presupposto che non esiste una terapia uguale per tutti ma si deve adattare la terapia psicanalitica a seconda della persona che si ha davanti. Cercare di “incasellare” un paziente ed il suo disagio in una teoria, in un manuale, insomma etichettarlo e dirigerlo significa snaturarlo, creare in lui un senso di assoggettamento che invece di favorirne il benessere lo porterà alla staticità ed alla paura del cambiamento.
Ecco perché è importante lavorare sulla relazione tra terapeuta e paziente: una relazione autentica, basata sul qui-ed-ora, su sentimenti reali che la influenzano, tanto quelli del paziente, quanto quelli del terapeuta. Non è umanamente possibile mantenere una posizione di assoluta neutralità e ciò deve essere riconosciuto da entrambi, soprattutto da chi cura.

La relazione tra paziente e terapeuta si fonda, come detto, sull’autenticità. Tutto ciò dunque che capita tra i due non può prescindere da un rapporto di condivisione, nello specifico soprattutto dalla comunicazione non verbale, dallo sguardo, dai movimenti del corpo, dalle espressioni facciali. Per “essere reale”, necessita insomma che l’interlocutore sia visto. Lo sguardo tra paziente e terapeuta è un importante fonte di informazioni perché a volte esprime ciò che non si riesce ad esprimere a parole, lo stesso ovviamente vale anche per il terapeuta.

Attraverso la relazione paziente-terapeuta si cerca di trasmettere in chi soffre che egli ha un’implicazione soggettiva nella sua sofferenza; i suoi disagi non sono ascrivibili alla sfortuna o al caso, ma egli stesso ne è causa inconscia e quindi il cambiamento e la risoluzione dei problemi dipendono in primis da lui. Il passo successivo è di suscitare in lui quella necessaria fiducia che lo porti a mettersi in gioco, a portar fuori i suoi limiti e le sue debolezze senza la paura di essere giudicato, attaccato, abbandonato. È necessario favorire nel paziente quella diminuzione dell’angoscia che non gli permette di focalizzarsi sul qui-ed-ora perché teme di perdere il controllo sulla situazione. Chi è troppo angosciato non riesce a concentrarsi sul flusso dei suoi pensieri.

Per approfondire:
I.D. Yalom, Il senso della vita, Neri Pozza

© Dott. Pasquale Saviano
Psicologo – Psicoterapeuta