MARILYN: DAL LETTINO ALLA ROVINA

Tra Marilyn Monroe ed il suo analista Ralph Greenson esisteva un attaccamento ossessivo e morboso, una relazione che superava l’etica e la professionalità del rapporto medico/paziente. Una follia a due che coinvolse l’icona della femminilità seduttiva e lo psicanalista hollywoodiano che avrebbe dovuto invece aiutarla a placare i suoi demoni interiori. Egli invece rimase invischiato in una relazione che si spostò da quella d’aiuto a quella ossessiva, costruendo intorno all’attrice una rete fatta di protezione, ammirazione, desiderio, ecc.
Fu Greenson a trovare il cadavere della sua paziente, come riportano le cronache dell’epoca. Una scoperta che lo segnò, soprattutto nella sua indole narcisista, la stessa indole che lo univa, per affinità, a Marilyn Monroe.

Alla base del rapporto terapeutico che poi sfociò in altro, c’era una personalità debole, caratterizzata da una patologia borderline ed una profonda ossessione per la propria immagine. L’attrice non aveva avuto una relazione con una madre capace di aiutarla a costruire un’identità femminile forte e ben strutturata; per questo la sua vita fu caratterizzata dal continuo inseguire quest’immagine di femminilità che la portò a scegliere il cinema come espressione di un profondo disagio.
L’abbandono subìto da una madre schizofrenica a soli 15 giorni di vita la condusse, secondo le parole di D. Winnicot, a vivere indifferenza e morte interna laddove non c’era un volto materno che le permettesse di rispecchiarsi e capire chi fosse. Dall’altro lato uno psicoterapeuta che da narcisista nascondeva una fragilità che l’ha portato a decisioni distruttive sia per lui che per lei. Un terapeuta fatto per il palcoscenico che teneva gli occhi delle platee dei congressi di psicanalisi incollati a lui, che era capace di parlare per ore senza appunti; che forse aveva trovato in Marilyn ciò che desiderava essere lui, un’icona. Il loro punto di incontro era basato sul desiderio che ognuno aveva di essere come l’altro: un intellettuale lei, un divo di Hollywood lui. Ciò ha portato alla nascita di un legame contorto dal quale si è potuto uscire solo alla morte di uno dei due.

Ma Marilyn cosa voleva che rimanesse di lei? Cosa voleva realmente raccontare di sé stessa? Qualcosa che andasse oltre ciò che la gente vedeva ed ammirava. Una donna che era arrivata alla fiamma della conoscenza di sé così vicino tanto da scottarsi. Una donna che voleva apparire ben oltre l’icona della bionda svampita, ma che per forza di cose non ci riusciva e ciò l’ha logorata dentro un po’ alla volta.
La terapia dell’attrice non era più ciò che una psicoterapia dovrebbe proporsi, cioè un’autonomia del paziente ma volutamente era diventato un rapporto morboso con l’analista che imponeva i propri valori al paziente in una sorta di gioco perverso di potere e dipendenza. Sebbene i due non avessero mai dormito insieme, la loro relazione si basava su un’osmosi inquietante. L’incapacità di Greenson di mantenere la giusta distanza terapeutica ha fatto sì che venisse inficiato anche il percorso di cura della paziente. Un amore che amore non è, un rapporto di dipendenza reciproca in cui ci si vedeva 7 giorni su 7 e più volte al giorno trasgredendo tutte le regole del setting psicanalitico. Arrivando a sostituire quella figura paterna che Marylin non aveva mai avuto (per riempire il proprio ego chiaramente) senza rendersi conto dell’ossessione che l’attrice aveva per il corpo era invece causata dall’assenza di una figura materna. In una logica perversa che caratterizza la dipendenza invece più si andava avanti più l’attrice si sentiva soffocare da questa relazione oppressiva. Una sorta di “follia a due” in cui l’incontro di due persone “normali” scatena uno stato di alienazione patologica che porta alla distruzione reciproca. Una storia caratterizzata, come detto, dall’assenza di un rapporto fisico; un transfert senza atto carnale, e per dirlo con le parole di Freud: “niente permette di distinguere l’amore dal transfert che sorge nel corso di una terapia nei confronti dell’analista dall’ amore sincero che può nascere tra due individui”. Salvo che l’amore transferale è più distruttivo dell’amore in assoluto.

Il terapeuta nel suo delirio di onnipotenza ha agito sulla paziente e sul suo corpo “erotizzato” in tutti i modi possibili, dicendole di interrompere determinate relazioni, divenendo suo agente, prescrivendole farmaci. Con ciò andava di inficiare la capacità della paziente di vivere l’assenza: l’assenza di una madre amorevole, l’assenza di un padre, l’assenza della capacità di essere.
Resta da porsi una domanda: “Quanto la psicoanalisi ha aiutato l’attrice a sopravvivere?”. Nonostante tutto, l’idea del terapeuta era di favorire il benessere di Marilyn ma così non è stato, complici anche i vissuti ed il passato della donna che portava dentro di sé un forte istinto di autodistruzione. Lo si vede soprattutto nella sua dipendenza da sostanze e psicofarmaci.
Nella consapevolezza che Marilyn Monroe abbia portato a termine il suo destino nell’unico modo più consono a ciò che era, forse, senza terapia avrebbe terminato la sua vita molto prima. Questo però non ci è dato saperlo.

Per approfondire:
Luciano Mecacci, Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi, Laterza

© Dott. Pasquale Saviano
Psicologo – Psicoterapeuta