L’ARTE DI ACCONTENTARSI

accontentarsi

… ma è davvero possibile?

 «Dottoressa, è possibile “accontentarsi”?»

A volte capita, che sia per caso o sincronia (considerando l’ottica junghiana), che in alcune mie settimane lavorative, di colloqui e di sedute con i pazienti, ci siano delle tematiche comuni nelle parole e nei racconti dei miei pazienti, tematiche che sembrano avere un fil rouge nelle storie di decine di persone diverse fra loro.

Questa settimana appena trascorsa, sembra aver avuto come tema di sfondo quello relativo ad una domanda:
Ci si può accontentare?

Ci si può accontentare di un certo tipo di lavoro, di ambiente lavorativo, o di clima con colleghi/datori di lavoro?

Ci si può accontentare di un rapporto coniugale vuoto e frustrante?

Ci si può accontentare di un rapporto negativo con il proprio corpo, la propria esteriorità?

Ci si può accontentare di relazioni amicali conflittuali?

Ci si può accontentare di ciò che si ha nella vita, e che non fa stare bene?

La prima risposta, che ormai i miei pazienti sanno io rilancio a loro, è: Tu cosa ne pensi? “Tu” pensi sia possibile accontentarsi?

La seconda risposta tendenzialmente è “dipende”.

Facciamo però un passo per volta, alla luce del fatto che ogni articolo e parola può essere (giustamente) soggettivamente interpretato, e per poter riflettere insieme andiamo a delineare il significato etimologico del termine “accontentare”.

 Dal dizionario etimologico Treccani, il verbo “accontentare” viene definito come  “contentare, rendere contento o soddisfatto; essere o ritenersi contento”, considerando il termine originario latino contentus (ovvero “contentare”), rafforzato dalla a- iniziare. In un altro dizionario, si rimanda il termine al verbo “contenere”, rinviando quindi al concetto di appagare con misura, con un limite.

Da questo punto di vista, la risposta alla nostra domanda si riconferma essere “dipende”.

SITUAZIONI DIVERSE

Ad esempio:

  • Sono in dieta e decido di farmi una coccola. Mi posso accontentare di una pallina di gelato, oppure non mi so accontentare, e mi prendo una vaschetta intera?
  • Nella relazione di coppia, mi posso accontentare di una relazione con un partner che non è sempre presente perché sta passando un momento particolarmente difficile nella sua vita, per cui sopporto la sua distanza senza troppi turbamenti?
  • A lavoro, facendo un po’ la somma di tutte le varie condizioni che vivo, posso accontentarmi di quella realtà, per certi aspetti appagante (lo stipendio, il rapporto con i colleghi) per altre casomai frustrante (gli orari con i turni, una relazione difficile con il caporeparto)?

Da questo punto di vista, l’accontentarmi significa mettere tutti i pro e i contro di una situazione sulla bilancia e rendersi conto che tutto sommato, può non essere così male come appare.

Altre volte però, l’accontentarsi significa rinunciare, spesso per resistenze e fatiche interne, per mantenere lo status quo delle cose, la cosiddetta “zona di comfort”, fatta di quello che si conosce, delle proprie abitudini che, per quanto creino dolore e malessere, sono la nostra condizione, a noi familiare, triste e difficile casomai, ma “nostra” (e ricordiamoci che fra scegliere una pizza con dei gusti diversi, casomai ottima, e la sicurezza della “solita” pizza, si ordina proprio la “solita” pizza!!).

Allora ci si accontenta, ovvero si accetta passivamente e con frustrazione, un lavoro/una relazione/una situazione frustrante, senza mettersi troppo in gioco e in discussione.

Domanda 1: Ne vale davvero la pena?

Domanda 2: Per quanto tempo si riuscirà a resistere?

 Perché la differenza fra il vivere bene o male l’”accontentarsi” sta nello stato emotivo percepito.

GODERE NEL LIMITE

Se accontentarmi significa godere di una cosa pur nel limite” (ho una barchetta e non uno yacht; ho perso 2 chili e non 10, ho delle “normali” difficoltà con il partner, senza aspettarmi la storia della Mulino Bianco, dove tutti devono essere felici-e-contenti), allora l’accontentarmi è sicuramente un saggio segreto per vivere serenamente questi giorni che abbiamo sulla Terra. Se invece accontentarmi significa rinunciare a qualcosa che si ritiene vitale per se stessi (il marito/la moglie che non ci calcola, fare i conti con un rapporto di coppia o amicale, che anziché nutrire, scarica e svuota, con un lavoro che si fa fatica ad affrontare e che ogni mattina ci porta ad alzarci con il mal di testa e a passare notti insonni, piene di preoccupazioni e tensioni, anche somatiche), allora in questo caso l’accontentarmi mi farà morire dentro.

RINUNCIARE PER PAURA

Spesso ci si rende conto, durante il colloquio, che il solo pensiero di un possibile cambiamento, spaventa così tanto da far emergere alla mente tutti i vincoli e le resistenze del caso: non ci si separa, ad esempio, “per i figli” (quando sappiamo benissimo che è mille volte più sano per i figli crescere in una famiglia serena, anche se questo vuol dire che mamma e papà non vivono sotto lo stesso tetto, piuttosto che crescere in una famiglia apparentemente unita ma altamente conflittuale), non si cambia lavoro per non perdere la sicurezza economica, che invece si potrebbe ottenere comunque se si fosse pronti a rimettersi in gioco in un altro contesto lavorativo, non si invita il/la partner a valutare la possibilità di una psicoterapia di coppia, “perché tanto lui/lei non accetterà mai, perché non capisce, perché so già come andrebbe a finire”…. Ma in realtà non sono lui/lei ad essere il problema, ma noi che non siamo ancora in grado di affrontare davvero la situazione.

Quindi, ritornando alla domanda iniziale: «È possibile accontentarsi?»

Dipende.

In alcuni casi sì, in altri no. L’importante, è che in quell’”accontentarti” tu stia bene.

© DR.SSA ILARIA CADORIN

Psicologa n°9570 Albo Psicologi del Veneto

www.ilariacadorin.com

ILARIA CADORIN

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