Il Sensuale Rapporto Donna-Natura

Tra Estetica, Femminilità e Sublimazione Filosofica

Finalmente “stiamo tornando quelli di prima, come prima” (siamo mai cambiati?), abbiamo riacquistato i nostri spazi dopo che ci erano stati tolti, e ci stiamo riappropriando delle nostre abitudini, coercitivamente stateci private da mosse sanitario-sociali alle volte draconiane, alle volte precauzionali, alle volte intelligenti, alle volte frutto di un’irrazionale paura nei confronti di un nemico potenzialmente ubiquitario.

Ciononostante, tornare come prima significa ri-congiungersi con i propri difetti, con  le proprie mancanze, ontologiche e culturali: una mancanza tanto ontologica quanto culturale, tanto presente pre-coronavirus quanto “post”-coronavirus, è il coinvolgimento uomo-natura. In questa sede vorremo specificatamente occuparci, vista anche la presenza del nucleo tematico “uomo-natura” negli esami di maturità di quest’anno (2019-2020), del sensuale rapporto donna-natura.

Per far questo, ci avvarremo del campo artistico, sfumandolo con un pizzico di filosofia e psicologia positiva.

Il contatto con la natura è sempre stato imprescindibile per l’essere umano, il quale, dapprima ne ha contemplato le bellezze (ritenendosi parte di quel bello tanto da potersi “divinizzare” attraverso la rappresentazione di figure divine con sembianze a lui riconducibili), poi ha cercato di sfidare le leggi della natura accorgendosi di come “natura non vincitur nisi parendo”[1] (la natura non si vince se non obbedendole), e poi ha iniziato a rendere – addirittura! – esistenti le cose grazie alla tecnica[2]

Se è effettivamente rinvenibile una certa convenienza, antropologicamente parlando, nel rapporto uomo-natura, c’è una categoria di uomini che non ha mai smesso di lasciarsi ammaliare dal naturale, e che non ha smesso mai di contemplarlo, rappresentarlo, fossanche tremando al cospetto di tanta grandezza e tanta potenza. Parliamo degli artisti, di coloro che hanno trovato nella natura, e nella sua rappresentazione estetico-artistica, la risposta alle proprie domande, o anche solo la cura alla propria solitudine, alla propria malinconia, alla loro angoscia, alle loro paure, alla loro disperazione; oppure ancora, al contrario, che sono, a causa della natura e del suo struggente e pervasivo fascino, sprofondati in un baratro esistenziale ancor più profondo di quello del quale erano già prigionieri[3].

Kant, nell’opera “Kritik der Urteilskraft” (Critica del Giudizio) del 1790, infatti, accosta al Bello la categoria del Sublime, la quale viene esposta come “ciò al cui confronto ogni altra cosa è piccola” (pp.171, Laterza, 2018); ed infatti, gli artisti, trovavano nel Sublime la risposta alla piccolezza di una società e di un uomo che, abbeverandosi al calice del progresso e dello sviluppo, aveva completamente dimenticato cosa significare essere-uomo.

Focalizzando la vista sulla società odierna, abbiamo travalicato questo stato delle cose, arrivando addirittura ad estraniarci da quanto creiamo, dalla produzione: sintomo di un turbo-capitalismo sfrenato e di una corsa alla rendita; una situazione utilitaristicamente malata.

“Per questo, anziché diventare autonomi, e cioè adulti, attraverso la crescita costante dell’esperienza e della cognizione del mondo, noi scivoliamo vieppiù, nuovamente indietro nella condizione di coloro per i quali il mondo è, in prevalenza, ignoto, nuovo, estraneo e impenetrabile, la condizione in altri termini dei bambini. L’esperienza è l’antidoto, effettivamente il solo, nei confronti dell’estraneità al mondo, ma oggi essa ha perso ormai il suo mordente. Poiché attualmente ciò che è familiare invecchia sempre più rapidamente e il mondo futuro diventerà sempre più diverso dal mondo di cui abbiamo fatto esperienza finora, per questo il mondo diventa estraneo – a noi, agli uomini moderni – e noi diventiamo estranei al mondo. Gli adulti moderni regrediscono alla infanzia.” (O. Marquard, Apologia del Caso, 1991, Il Mulino, Bologna, p.124)

Fatta questa – lunga ma necessaria – premessa, abbiamo ora, sinteticamente ma crediamo efficacemente, inquadrato il significato dell’essere-artista: colui che, più disposto verso il Sublime, mediante la rappresentazione della natura (intesa in senso lato), riesce catarticamente a dimenticare la piccolezza del mondo che lo circonda, con le sue ipocrisie, con le sue falsità e con i suoi orrori.

Avendo superato il derma ed i muscoli, addentriamoci ora negli apparati di questo articolo: ogni artista, poiché possa fare esperienza del Sublime, necessita di un “tode ti”[4] che ne faccia scaturire la sensazione; spesso e volentieri, questo “qualcosa” è stato rappresentato dalla Donna.

Donna che dapprima era stata pensata stilnovisticamente come manifestazione angelica, come essere superiore del quale doveva accettarsi anche il rifiuto e ci si doveva compiacere di un’occhiata, poi direttamente accostata alla Natura in quanto massima espressione della bellezza di questa fattasi uomo: la Donna diventa arte.

Prenderemo in considerazione l’opera di un artista, Pietro Morea (1944-2014, Bari) il quale ha rappresentato, meglio di molti altri, il rapporto Donna-Natura nelle sue opere essendo queste, la Donna e la Natura, indiscusse protagoniste della sua produzione artistica.

Sublimazione Azzurra

L’opera, presente sopra, porta il nome di “Sublimazione Azzurra”, e vede protagonista una donna nuda, pudicamente protetta nelle parti intime da una coperta di fiori, in perfetta sinergia, sintonia ed armonia, con la Natura ed una delle sue più magnifiche produzioni: i fiori. Fiori di un colore caldo, giallo; probabilmente l’artista aveva in mente il componimento leopardiano della Ginestra, nel quale si dice che questo fiore, dal contraddistinguente colore giallo, spunta nei posti protagonisti di intemperie. In senso Leopardiano, questo è il simbolo poetico della “social catena”: c’è vita anche nei luoghi maggiormente vittima di dolori, e l’essere umano, seppur vittima della sofferenza più grande (ossia quella della non-conoscenza del senso dell’esistere), deve, attraverso la condivisione delle proprie pene con un altro, acquietare il proprio mal-essere.

Ma la donna, trascendendo il proprio ruolo artistico prettamente e meramente estetico, che ruolo gioca nella rappresentazione estetica nei confronti dell’animo dell’artista?

La donna è sempre stata forma d’ispirazione tanto poetica quanto artistica, non è quindi una novità che venga utilizzata come personaggio, eppure: per quale motivo questo, e soprattutto a che pro?

E’ lapalissiano ritenere la femminilità[5] – aspetto principalmente femminile e peculiare di coloro che possiedono un animo tale – un elemento peculiare, unico ed inimitabile della donna, che non viene assolutamente controbilanciato da una caratteristica speculare nell’uomo: ebbene, crediamo davvero che la ricerca artistica che porta l’artista a far esperienza del Sublime mediante la Donna-Natura sia proprio la completa consapevolezza di quest’ultimo che l’unicità della donna, quella che lui mai potrà avere, la sublima rispetto ad una condizione mondana e tutta materiale. Conscio di questo, tenta quindi, Pietro Morea in questo caso, di rappresentare la Donna immersa completamente nella natura: non sovrastata, né tantomeno inserita come fosse un soggetto-altro rispetto al naturale dal quale è circondata, bensì come tutt’uno con i fiori, armoniosamente seduta come avesse anch’essa radici in quell’ipotetico terreno sopra il quale è seduta e dal quale spuntano quei fiori.

La donna è arte nella misura in cui dimostra a pieni polmoni la sua femminilità, e quindi riesce ad esprimere al meglio delle proprie capacità estetiche il proprio essere – sensualmente e pudicamente – donna. L’espressione della Natura nella Donna, poi, è armoniosa proprio quando questa femminilità non è frutto di ostentazione e volgare voluttà, bensì di genuina e naturale disposizione d’animo nei confronti delle avversità: l’animo femminile trascende, sublima l’uomo quando mostra la sua sensibilità, senza nasconderla, senza dissimulare, e senza vergognarsene.

Spesso, la superiorità della donna-femminile sta nel fatto che sia semplice: alcuna falsa ostentazione, nessuna ipocrisia, nessuna falsità; il coraggio di esibirsi nella propria attraente semplicità è la più grande forma di potere che si possa avere. Esattamente come la Natura, che non se ne vergogna mica di mostrare le proprie rose, ma anche le proprie spine, la donna-femminile mostra le proprie debolezze ma anche la propria superiorità nel saperle mostrare in modo trasparente e non-retorico. Il rapporto Donna-Natura, in conclusione, risulta essere, quando puro, ciò che più si avvicina all’essenza della Natura stessa.


[1] Famosa citazione proveniente dal pensiero del filosofo Francesco Bacone

[2] E’ consigliato caldamente, nel caso si voglia approfondire la questione, leggere “La Questione della Tecnica”, M. Heidegger

[3] Pensiamo soprattutto a Van Gogh

[4] Aristotelica espressione utilizzata per indicare qualcosa di cui non si ha conoscenza certa, epistemologicamente incontrovertibile

[5] Intesa in quanto disposizione ed atteggiamento tutto sensualmente femminile nei confronti delle cose, degli eventi.