La fotografia in terapia

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Laura è una giovane mamma, sposata da qualche anno. Ama suo marito, adora suo figlio e da qualche tempo ha ripreso a lavorare nell’azienda di famiglia come commercialista. Tutto sembra funzionare, eppure Laura da qualche mese è travolta da preoccupazioni così intense che il tempo trascorso con i suoi cari non è più autentico e spensierato ma è contrassegnato da uno stato di allarme che accompagna costantemente le sue attività quotidiane. Questo stato di ansia generalizzata e invalidante la rende angosciata, la fa sentire impotente e la rende apprensiva e soffocante nei confronti dei suoi familiari. Laura non sa spiegarsi cosa le stia accadendo, continua a scuotere la testa e ripetere che ha paura, sente un peso al petto, si sente soffocare. Più volte riferisce di voler piangere e urlare, come per liberarsi da un “mostro” che non le dà pace, ma non riesce ad esprimere a parole cosa prova, a verbalizzare quel “centrifugato” di emozioni e ricordi che lei definisce essere “il mostro”.

Un giorno decisi di proporle un lavoro con le immagini fotografiche. Disposi sul tavolo una trentina di fotografie eterogenee, a colori e in bianco e nero: paesaggi, ritratti, animali, scene di vita quotidiana, e le chiesi di scegliere una fotografia che aveva catturato particolarmente la sua attenzione. Laura non esitò alla mia richiesta. Incrociai per un istante il suo sguardo incuriosito ma lo persi un attimo dopo; in quel momento, nella stanza, la mia figura era sullo sfondo. Laura era la “possibile protagonista” delle tante “possibili storie” contenute entro le margini di quelle fotografie, percepite non più come semplici pezzi di carta sottile, ma come qualcosa di vivo, tridimensionale, con uno spazio e tempo reale, vissuto. <<Eccola! Mia sorella!>>, esclamò. Laura scelse l’immagine di una bambina sorridente e dallo sguardo vispo, appoggiata ad un grande albero secolare. Le radici erano maestose e la fitta vegetazione che lo avvolgeva lo rendeva marmoreo. Laura continuò: <<E’ proprio lei, mia sorella maggiore, così forte, così presente, proprio come questo albero! Lei c’è sempre stata per me, è sempre stata un punto fisso su cui potevo contare, al quale potevo aggrapparmi. Bastava chiamarla e arrivava appena le cose diventavano troppo spaventose e incontrollabili>>.

Quella fotografia rappresentò l’inizio del processo di cambiamento. In seguito Laura mi raccontò di aver perso sua sorella in un incidente stradale. Il percorso psicologico si concluse con la creazione di un <<diario visivo della perdita>>, in cui Laura narrò visivamente, attraverso l’utilizzo di immagini fotografiche personali e non, il suo rapporto con la sorella e il vissuto emotivo connesso alla sua perdita. Questo percorso foto-terapeutico le permise di elaborare il lutto e adattarsi al cambiamento in modo sano e funzionale.

In questo caso, come in altre situazioni, la fotografia, grazie alla sua forte valenza simbolica e metaforica, ha rappresentato un catalizzatore non verbale per esteriorizzare un’emozione. Descrivendola e reagendo a essa è stato possibile entrare in contatto con forti emozioni e ricordi che sono solitamente celati da difese cognitive. Le differenti tecniche che utilizzano la fotografia in cosulenza psicologica, infatti, consentono ai pazienti di bypassare i sistemi di controllo verbale conscio, e allo stesso tempo permettono al loro linguaggio inconscio metaforico e simbolico di emergere. Guardare una qualsiasi fotografia dà inizio in ogni osservatore a un processo associativo ed emozionale: è così che è possibile vedere un’unica realtà tra le tante che sono contenute dentro i confini di quella fotografia. Questo avviene perché ogni immagine può contenere simultaneamente numerosi significati, è carica o caricabile emozionalmente. Benché una fotografia sia di per sé definita dentro dei confini, non ha limiti per quanto riguarda il potenziale simbolico che può avere per l’osservatore. Di fatti i confini di ogni fotografia definiscono non solo una finestra affacciata sull’immagine, ma anche una finestra che si apre sulla mente di colui che osserva. Di fronte ad una fotografia creiamo ciò che vediamo attraverso il meccanismo della proiezione e dell’immaginazione.

Utilizzare la fotografia in consulenza psicologica significare utilizzare la proiezione visiva: il paziente, nel momento in cui è aiutato dallo psicologo a esplorare la costruzione e l’associazione dei significati e dei sentimenti che percepisce nell’immagine fotografica, proietta, decodifica, decostruisce i contenuti emozionali che derivano dall’immagine stimolo. Il termine Phototherapy Techniques, introdotto da Judy Weiser, indica l’insieme di tecniche che possono essere usate come strumento all’interno di un processo psicologico indipendente dal modello o dall’approccio terapeutico di riferimento.

In base alla relazione che intercorre tra il paziente e la fotografia, si possono individuare 5 tecniche, associate a 5 tipologie di foto, mediante le quali è possibile lavorare per sollecitare nella persona una più profonda e autentica esplorazione di sé, agevolare il pensiero, fungere da supporto alla comunicazione interpersonale, facilitare il dialogo e il processo di cambiamento:

1. PHOTO-PROJECTIVES: la fotografia viene proposta al paziente come strumento proiettivo.
2. FOTOGRAFIE SCATTATE O RACCOLTE DAL PAZIENTE: si lavora con le fotografie portate dal paziente in risposta a temi proposti dallo psicologo.
3. FOTOGRAFIE DEL PAZIENTE SCATTATE DA ALTRE PERSONE: si lavora sull’immagine del paziente da un punto di vista esterno.
4. ALBUM DI FAMIGLIA: si lavora con fotografie che parlano della storia e della famiglia del paziente.
5. AUTORITRATTI: si lavora sulla rappresentazione che il paziente ha di sé.

All’interno del corso “Tecniche di gestione del pensiero”, che si terrà a Milano sabato 8 e domenica 9 Luglio 2017, organizzato dall’Accademia delle Tecniche Psicologiche, verranno osservate e sperimentate nella pratica alcune delle tecniche che utilizzano la fotografia nella relazione di aiuto. Importo scontato per iscrizioni entro il 22 giugno 2017Per maggiori informazione cliccare qui.

Morena Petrongolo
e i colleghi dell’Accademia delle Tecniche Psicologiche