DIPENDENZA AFFETTIVA. VIVERE PER PROCURA

Il dipendente affettivo presenta un terribile handicap, l’incapacità di essere felice che può essere gestita solo dalla presenza di una stampella: l’altro. La necessità ed il desiderio di essere amato vengono sopperiti solo dalla presenza di un’altra persona. È necessario per questo soggetto dipendere da qualcuno (che sia un partner, un familiare, un amico) affinché possa esistere. L’autonomia scompare, egli vive per procura. Vivere in questo modo significa vivere elemosinando l’attenzione degli altri e desiderandone l’approvazione perdendo di vista le proprie capacità e le proprie peculiarità di persona.

Durante la crescita tutti impariamo a prenderci cura di noi, in un certo modo diventiamo genitori di noi stessi. Se questo non accede, si sviluppa una personalità con una spiccata dipendenza nelle relazioni interpersonali. in una continua ricerca di conferme e cure nell’incapacità di auto-rassicurarsi. Questa persona avrà un enorme difficoltà a prendere decisioni, anche le più banali, poiché non in grado di assumersi quelle responsabilità nella scelta. Per ottenere accudimento, egli o ella sarà disposto fare qualsiasi cosa, anche spiacevole, col rischio di ritrovarsi in relazioni in cui spesso viene manipolato da partner narcisisti che approfittano con tradimenti o violenze fisiche e psicologiche.

Questo tipo di malessere è dovuto ad una profonda immaturità ed una bassa autostima, a causa di modelli genitoriali non all’altezza di favorire la nascita e lo sviluppo nel figlio di quella necessaria autonomia che gli permetta di volersi bene e prendersi cura di se stesso senza il supporto e l’approvazione degli altri.
Chi soffre di dipendenza affettiva manca di una propria identità separata da una figura di riferimento; similmente al bambino che dipende dal caregiver per il proprio benessere, allo stesso modo l’adulto sviluppa una necessità di attenzione e cure da una figura di riferimento.
La nascita del disturbo può essere anche ricercata nel rapporto tra figlio e genitore, allorquando egli è costretto a svestire i panni di figlio indossando quelle di genitore. Pensiamo ad un bambino che ad un certo punto è “obbligato” a prendersi cura di un genitore fortemente depresso, con una dipendenza o con un deficit fisico o cognitivo. Egli dovrà diventare quella figura di riferimento che si carica di tutti i limiti di chi invece dovrebbe prendersi cura di lui, fino allo stremo delle proprie forze, mettendo da parte i suoi bisogni. La cura dell’altro diventa a questo punto fonte di gratificazione ed autostima facendolo sentire capace da adulto solo se riconosciuto e gradito dall’altro. A questa situazione ben definita vanno associati una paura viscerale di essere abbandonato e l’assenza di amor proprio.

Il rapporto di dipendenza che nasce all’interno della relazione familiare caratterizza e si riflette su tutti i tipi di rapporti interpersonali, in primis in quello di coppia (in cui si ritrovano situazioni di violenza e gelosia), ma anche in quelli amicali, lavorativi o addirittura terapeutici laddove viene iniziato un percorso psicoterapico.
Per le persone che soffrono di dipendenza affettiva è difficile stabilire confini efficaci tra sé e l’altro, riconoscere la propria identità, riconoscere e soddisfare i propri bisogni e desideri, avere comportamenti e reazioni moderati. Nel breve periodo, l’oggetto della dipendenza è inebriante, rappresenta una fuga verso l’esterno da un sé povero, incompleto, incapace di badare a se stesso, perché permette di anestetizzare angosce e tormenti. Ma il rimedio col passare del tempo si rivela essere peggiore del male, poiché non è sufficientemente permanente da offrire una fuga duratura ed ecco che la realtà si ripresenta e con essa sofferenza e dolore.

Chi soffre di dipendenza non cerca altro che serenità, piacere, pace ma nel tentativo di ottenerla non fa altro che perdere sempre più la propria autonomia; la dipendenza è solo una scorciatoia per qualcosa di anelato che aiuta a sentirsi bene solo nel momento della fuga ma non definitivamente. Il dipendente affettivo non ha imparato a sviluppare amor proprio ed autostima, la sua personalità è l’antitesi dell’amore verso di sé. Egli vive nella costante convinzione di essere incompleto o vuoto, di non piacere, di non essere capace in nulla (nelle relazioni, nel lavoro), teme la solitudine e spesso scende a compromessi pur di non perdere l’oggetto cui ha delegato il suo benessere mettendo da parte se stesso anche contro i propri codici morali ed i suoi valori cercando di tollerare l’intollerabile pur di mantenere quel poco di amore che crede di ricevere (è il caso di persone che rimangono con un partner che le tradisce, le vessa, o accettano di sottostare a direttive ed avances in ambito lavorativo da parte dei propri capi pur di non perderli); il dipendente corre il rischio di tollerare comportamenti sempre più intrusive ed iniqui. Con ciò avalla tacitamente azioni di violazione nei suoi confronti di cui indirettamente è complice.

Quando si parla di dipendenza affettiva, la causa e la soluzione si trovano dentro l’individuo: tutto è legato a parti di sé che egli non conosce, perché troppo impegnato a guardare e cercare all’esterno. La tendenza a delegare ad altri la propria vita lo porta ad agire da spettatore più che da attore, quindi la convinzione è che non potrà fare mai nulla per migliorare lo stato delle cose. Mentre egli attende che la felicità giunga dall’esterno, illusioni e disillusioni si susseguono nella sua vita attraverso relazioni inappaganti che lo allontanano sempre più da una visione di vita felice.
La fame d’amore lo porta a donarsi a chiunque, si lascia trascinare dal primo che passa o di contro si lega a qualcuno che vede come un salvatore anche se questa persona lo maltratta in ogni modo; cerca di trarre un vantaggio da una relazione che relazione non è, accettando o criticando alternativamente ciò che non ha.
La negazione di sé stesso non gli permette di apprezzare ciò che è, non conosce nulla di sé: valori, limiti, capacità, forza d’animo, ecc.

Esiste tuttavia uno modo per affrancarsi da questo malessere, un lungo cammino attraverso il quale si riprende il potere sulla propria vita, cambiando percezioni errate e modificandole a vantaggio di atteggiamenti benefici.
Affermare i propri bisogni e le proprie aspettative, sviluppare l’autostima in se stessi sono i primi passi verso la guarigione, perché solo se il dipendente affettivo porrà al primo posto se stesso le cose cambieranno. Riconoscere le proprie fragilità permette di capire cos’era prima di cadere in questo stato di malessere. Progredire significa liberarsi dal senso di colpa, dalla vergogna, dai pensieri disfattisti, dalla paura dell’abbandono e dalla resistenza al cambiamento dando a se stessi spazi e modi per amarsi e rispettarsi.
Egli dovrà focalizzarsi su se stesso, rendendosi conto che quella solitudine che spesso è vista come terrore è utile per stabilire una relazione più profonda con se stesso in cui poter prendere parti di sé a piccole dosi cercando di concentrarsi su ciò che lo fa stare bene, mettendo in atto nuovi atteggiamenti e riprendendo poco a poco il controllo della vita. È necessario che si passi ad azioni concrete per riprendere in mano la propria vita riservandosi spazi per sé, adattandosi al cambiamento, accettando la sfida ed allontanandosi dalle persone che non gli daranno mai nulla di quello che necessita almeno finché non sarà lui o lei in primis a farlo.

Un percorso terapeutico è basato proprio su questo: far capire al paziente che ha poco controllo sulla sua vita, che spesso il suo è un atteggiamento vittimistico che non lo porta a nulla se non ad accettare tutto ed a mettersi da parte.

© Dott. Pasquale Saviano
Psicologo – Psicoterapeuta