Anatomia della crisi creativa

È difficile non vedere gli anni (due punto) zero come gli anni della produzione sfrenata. Della saturazione eccessiva. Dell’accumulazione più vorticosa. L’ipotesi della contemplazione, della parsimonia, della riflessione o dello studio sono ipotesi considerate soltanto in maniera liminale. Tutto sembra essere rivolto alla produzione continua e costante. Come se la cosa sola a importare davvero sia il simbolo “più” davanti a qualsivoglia termine di paragone. Dire che quest’attitudine sia un retaggio del turbocapitalismo sfrenato che ci ha cullati per decenni sarebbe quasi scontato. Dare ad altri la colpa di tale situazione, però, sarebbe oltremodo miope.

La società in cui viviamo, nella maggior parte dei suoi indicatori, richiede una presenza costante. Sia essa sociale, commerciale, sentimentale e così via all’infinito. La riduzione dei gradi di separazione e l’aumento delle possibilità (spesso virtuali) di interconnessione hanno fatto sì che molti dei canoni secondo cui è valutata la produzione di un individuo (o di un gruppo di individui) sia strettamente legata alla sua pervasività. Alla sua presenza all’interno del mercato stesso. Il concetto di qualità, quindi, decade a discapito di quello di quantità. Con il divertente paradosso che, man mano che quest’ultimo implementa, la percezione del secondo decresce in maniera esponenziale. In sostanza, ci troviamo a fare delle continue scorpacciate di palta convinti di possedere un palato talmente raffinato da permetterci di gustare i pochissimi manicaretti che ci capiteranno (casualmente?) tra le mani. Inutile dire che non è così, e che la sovrapproduzione costante e iper-diffusa ha uno scopo ben preciso: abbassare le pretese e livellare il gusto, così da essere “commercialmente” più gestibile.

Se tale aspetto era quasi sempre confinato alle realtà produttive di carattere industriale o economico, con la modificazione del ruolo dell’artista nella società (Walter Benjamin docet) anche la figura di quest’ultimo ha dovuto iniziare a rapportarsi con la necessità di una iper-produttività capace di stare al passo con i tempi. Il prodotto artistico si è trovato, quindi, a rispondere a un insieme di leggi che non le erano quasi mai state proprie. Venendo così inevitabilmente a patti con una realtà spesso vista come alternativa, piuttosto che correlata. Uno degli aspetti principali di tale commistione è proprio quello della saturazione del mercato (vedasi il recente caso degli U2 e della Apple). Saturazione volta a porre l’artista in un costante stato di presenza (ai limiti dell’invadenza) capace di esorcizzare l’ipotesi della “morte” della sua stessa produzione. Quando Andy Warhol disse che «nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per 15 minuti» non poteva certo immaginare che la fatidica ricerca di un quarto d’ora di celebrità (con il passare dei decenni e con lo sviluppo della tecnologia) si sarebbe trasformata nella volontà del protrarsi della stessa. Finché riuscirò a vivere di quarti d’ora di celebrità (curioso, una volta l’ambizione era quella dei quarti di nobiltà) continui, potrò confessare di aver vissuto. Sommati gli uni sugli altri, questi quarti d’ora bulimici, comportano una celebrità piena. Scheggiata e traballante come una colonna di Jenga. Ma, quanto meno all’apparenza, solida.

crisi creativa

Tuttavia le cose non sono sempre andate così: i grandi artisti del passato erano raramente ipertrofici come quelli attuali. Per lo meno se considerata la mole produttiva (escludendo Picasso, ovviamente). Soprattutto, non erano così estranei alla possibilità di un blocco creativo, cioè al manifestarsi di una crisi artistica capace di interrompere la loro produzione. Tali crisi assumevano contorni, durate e conseguenze diverse e variegate, influendo in modi assai diversi nelle future produzioni (o nella cessazione delle stesse) degli artisti. Cercherò ora di analizzare alcune di queste crisi non seguendo la collocazione temporale degli artisti, bensì la durata del loro blocco.

Per dimostrare come un evento del genere possa capitare in qualsiasi ambito, ho preso in considerazione artisti (e blocchi) estremamente diversi tra loro. Eccoli di seguito:

– Marcel Duchamp (1923-1946): Marcel Duchamp fu forse l’artista che più di tutti simboleggiò la rottura tra l’opera d’arte considerata nella sua unicità e l’evidenza di un mondo in cui la riproducibilità tecnica diventava un fattore con il quale “scontrarsi” con sempre maggior veemenza. Per Duchamp tutto era potenzialmente arte, a patto che venisse valorizzato e contestualizzato con la dovuta profondità e lucidità di analisi. Per questo il ruolo dell’artista, lungi dall’essere limitato, assumeva un valore se possibile più grande. Divenendo non soltanto artefice, quanto più “padre” dell’opera stessa. Dopo aver lottato per diversi decenni tra le barricate dell’avanguardia per cambiare il gusto dei fruitori di opere d’arte, Duchamp diede alla luce negli anni ’20 la sua opera più nota e dibattuta: “La Sposa messa a nudo dai suoi Scapoli, anche”, meglio nota con il titolo de “Il Grande Vetro”. Dopo la realizzazione del “Grande Vetro” Duchamp entrò in una crisi creativa durata ben due decenni, decenni durante i quali decise di abbandonare completamente l’arte per diventare uno scacchista di fama mondiale. Se è ben comprensibile il percorso che spinse l’artista a fare della sua vita un’opera d’arte, il passaggio che lo porterà a scacchista di fama mondiale resterà incomprensibile ai più. Duchamp si dedicherà agli scacchi professionistici fino al 1946 quando, tenendo all’oscuro amici e critici, inizierà a lavorare al suo ultimo capolavoro: l’“Étant donnés”, un’installazione ambientale di cui erano a conoscenza soltanto le sue ultime due mogli e a cui lavorerà senza sosta fino alla fine dei suoi giorni. Cose da fare in caso di blocco creativo? Dedicarsi a una passione può essere una buona idea. In ogni caso considerate bene le passioni cui vi dedicherete: potrebbero essere più impegnative dell’arte stessa!

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Giacomo Casanova (1785-1798): Giacomo Casanova è forse l’esempio più tangibile del principio secondo cui l’artista deve fare della sua stessa vita un’opera d’arte. Scrittore, avventuriero, diplomatico, poeta e alchimista, Casanova (a discapito della sua grafomania) viene universalmente ricordato per le sue doti di seduttore. Seduttore non fine a se stesso, bensì caparbio nel conquistare la donna amata con romanticismi e peripezie tanto dialettiche quanto fattuali. L’arte di sedurre, infatti, è forse il talento che maggiormente dimorava nelle vene di Casanova. E quel suo continuo dedicarsi alle attività più disparate sembra quasi sottolineare come non sempre il talento che ci viene donato è quello per il quale vorremmo essere ricordati. Dopo rocambolesche conquiste, fughe notturne, perdoni inaspettati, anatemi, duelli e chi più ne ha più ne metta, Casanova decise (in maniera figurata) di appendere la sua dote più significativa al chiodo e, lasciata prima Venezia e poi Vienna, si trasferì in Boemia alla corte del duca di Waldstein, per svolgere la mansione di bibliotecario. Gli ultimi tredici anni della sua vita saranno anni tristissimi, pieni di privazioni e completamente vuoti dal punto di vista femminile. Deriso e odiato dalla servitù del Waldstein, Casanova dedicò tutto il suo tempo alla scrittura, portando a compimento l’opera autobiografica “Storia della mia vita”: collezione di conquiste e avventure che gli darà quella fama postuma cercata in maniera così incessante. Fama come seduttore, però, non come scrittore e poeta. Cose da fare per arginare un blocco creativo? Non gettarsi a capofitto nella solitudine più estrema: più sesso e meno solipsismo. Il primo può essere raccontato e rielaborato in forma artistica. Il secondo (salvo rarissime eccezioni) no.

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– Tina Modotti (1930-1942): spesso ci dimentichiamo di come l’arte sia una forma di espressione veicolata tanto a un apparato “fisico” (gli strumenti e i materiali per realizzarla) quanto a un’ispirazione interiore. Ispirazione che, lungi dall’essere eterna, può prosciugarsi in ogni momento (la famosa “tubatura” di Rimbaud) o, allo stesso tempo, venire veicolata verso altri lidi. Lidi che non necessariamente devono avere a che fare con l’arte o con la creazione artistica. L’esperienza della fotografa e attrice friulana Tina Modotti sembra essere qui davanti ai nostri occhi per dimostrarcelo. Emigrata negli Stati Uniti, Tina si dedicò prima alla recitazione (con discreto successo) e poi alla fotografia, sulle orme tanto dello zio Pietro quanto del compagno: il fotografo Edward Weston. Emigrata in Messico agli inizi degli anni ’20, la Modotti utilizzò questa sua forma d’espressione per documentare la Rivoluzione Messicana, raccogliendo diverso materiale sulle condizioni del popolo messicano, nonché sulla vita dei rivoluzionari. L’apice della sua carriera di fotografa si ebbe nel 1929, con una mostra dal titolo “La prima mostra fotografica rivoluzionaria in Messico”. Un anno dopo, la Modotti venne cacciata dal paese in quanto persona non gradita. A parte rare eccezioni non scattò più alcuna foto. Si dedicò, però, assieme al compagno Vittorio Vidali all’appoggio concreto alle cause rivoluzionarie, prima come “inviata” del Comintern, poi come membro delle Brigate Internazionali in Spagna. Ritornata in Messico nel 1939, vi morì nel 1942, in circostanze mai del tutto chiarite. Arte e rivoluzione. Arte è rivoluzione. Come sopravvivere a un blocco creativo? Chiedersi cosa davvero si voleva comunicare con quel mezzo di espressione e, se possibile, tagliare tutti i passaggi intermedi e andare direttamente alla fonte.

196TINA MODOTTISombrero mit Hammer und SichelMexico City 1927

– Malcolm Lowry (1947-1957): nonostante non sia molto conosciuto in Italia, Lowry è considerato uno dei più grandi autori in lingua inglese del XX° secolo. Cresciuto in una famiglia benestante, Lowry si appassiona ben presto alla scrittura e, sulle orme di Joseph Conrad e Jack London, prende la via del mare alla ricerca di emozioni e di storie da raccontare. Tornerà in patria deluso, ma con il suo primo romanzo (“Ultramarina”) ben piantato nella mente. Gli anni della maturità sono anche gli anni dell’inizio del suo rapporto burrascoso con l’alcol e con le donne, acuito da frequenti crisi nervose che lo porteranno a gesti tanto plateali quanto sconsiderati. Trasferitosi in una capanna nei sobborghi di Vancouver, Lowry passa gli anni dal 1940 al 1945 a lavorare a quello che sarà il suo capolavoro: il romanzo “Sotto il vulcano”. Romanzo fortemente autobiografico, il quale si sarebbe dovuto configurare come prima parte di un’ipotetica trilogia sull’esempio della “Divina Commedia” dantesca. Nel 1945, però, in seguito all’incendio della sua baracca, Lowry perde tutto il materiale fin lì editato per il secondo capitolo della trilogia. Le bozze di “Sotto il vulcano” si salveranno soltanto grazie al provvidenziale aiuto della moglie. Rimaneggiato il testo, Lowry riesce a pubblicarle nel 1947 ottenendo un grande successo di critica e di pubblico. Da lì, però, non scriverà più nulla. Anni di alcolismo e delirio si concluderanno con una morte sospetta nella sua casa di Ripe nel Sussex. Il referto medico parla di morte accidentale per overdose di alcol e barbiturici, ma l’ipotesi che si sia trattato di un suicidio o di un omicidio ben orchestrato dalla moglie stufa di insulti e percosse da parte del marito alcolizzato non sono mai state derubricate del tutto. Cose da non fare in caso di blocco creativo? Abbandonarsi all’alcol e allo sfacelo personale è sempre una pessima idea. Le reminiscenze alcoliche sembrano grandi idee nell’immediato, ma nel concreto si rivelano ciofeche inenarrabili. Nel dubbio, sobrietà e nuovi progetti. Possibilmente senza eccedere in barbiturici.

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– Miles Davis (1975-1980): di certo uno dei più grandi trombettisti della storia, Miles Davis rivoluzionò così tante volte il jazz, che ci vorrebbe un’enciclopedia intera per descrivere la portata della sua influenza. Dal cool jazz degli inizi, all’hard bop. Dal primo grande quintetto con John Coltrane, a “Kind of Blue”. Dal secondo grande quintetto con Herbie Hancock all’Electric Miles degli anni ’70. Miles Davis fu una fucina di idee e stili, contaminando i grandi musicisti che suonavano con lui tanto da trasformarli a loro volta in star affermate desiderose di dimostrare il loro talento. Forse fu proprio questo vedere così tanti suoi ex-musicisti affermarsi sulle platee mondiali (in rapporto a un fisico sempre più minato dalle malattie e dall’abuso di droghe) a spingerlo verso il mutismo che lo colse dal 1975 al 1980. In quegli anni, Miles disse di non aver mai preso in mano una tromba, dedicandosi all’abuso di sesso e droghe, rinchiuso in casa come un eremita. Depresso e strafatto, Miles allontanò tutti gli amici di un tempo, e perse gran parte dell’elasticità necessaria per poter suonare la tromba. Non è dato sapere le ragioni di un rigetto così deciso e prolungato, semplicemente il grande Miles Davis era stufo di avere a che fare con la musica. E non perdeva occasione per ricordarlo. La crisi durò circa cinque anni poi, rimesso in sesto dalla nuova compagna e dal produttore George Butler, Miles ritornò a calcare le scene con discreto successo. Morì il 28 settembre 1991 in un ospedale di Santa Monica, stroncato da un colpo apoplettico nell’atto di inveire contro i medici che volevano intubarlo per salvargli la vita. Un caratterino non da poco. Come uscire da un blocco creativo? Circondarsi di affetti sinceri è quanto di meglio possa capitare. Estraniarsi dagli eventi è utile fino a un certo punto. Se la realtà in cui viviamo non ci piace, non sputiamoci sopra, piuttosto cerchiamo di reinventarla. A ritmo di jazz, magari.

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– Mickey Rourke (1991-1995): l’anno della morte di Miles Davis coincide con l’inizio del “blocco artistico” di Mickey Rourke, forse uno degli attori più iconici degli anni ’80. Reduce da un decennio di successi (“Rusty il selvaggio”, “9 settimane e ½”, “Barfly”, “L’anno del dragone”), Rourke iniziò a esagerare nei suoi comportamenti borderline e nella sua dipendenza da alcol e stupefacenti. Per dimostrare il suo essere un uomo “della strada” (il ruolo che solitamente era chiamato a interpretare) Rourke si circondava di affiliati a organizzazioni criminali, membri di gang di motociclisti (la descrizione del suo “gruppo” fatta da Bukowski in “Hollywood, Hollywood!” è un piccolo gioiello narrativo) e rapper sulla cresta dell’onda. Parimenti, la scelta dei ruoli iniziò a non essere propriamente impeccabile. Film che gli garantivano sì ottimi salari, ma che ne svilivano le doti iniziarono a costellare la sua carriera. Così che, toccato il fondo, Mickey Rourke decise di abbandonare il mondo del cinema per dedicarsi alla sua vecchia passione: la boxe. Iniziò quindi una carriera di pugile professionista, senza però ottenere risultati di rilievo nazionale. In compenso si fece massacrare il viso svariate volte (nonostante il suo ruolino di pugile non annoveri alcuna sconfitta), vedendosi costretto a interventi di chirurgia plastica che, paradossalmente, accentuarono i tratti di un volto già di per sé particolare e sofferente. Dopo alcuni anni di blocco Rourke fece di necessità virtù e, ritagliandosi piccoli ruoli su piccoli ruoli grazie anche a quel suo viso così “massacrato”, ritornò sulla cresta dell’onda. Attualmente è uno degli attori più ricercati sulla piazza, nonché un ex-pugile ritiratosi da imbattuto. Chapeau! Cose da fare in caso di blocco creativo? Sfogarsi fisicamente sudacchiando un po’ è sempre consigliabile. Eliminare tossine tirando pugni al vento è il rimedio più vecchio del mondo. Ma, come i rimedi della nonna, funziona sempre.

Rourke.Mickey crisi creativa

– Guido Anselmi (?): chiudiamo questa piccola analisi con una figura di fantasia; la quale, per il suo creatore, ha svolto al tempo stesso la funzione di simbolo nonché di esorcismo per il “blocco artistico”. Questa figura è la figura di Guido Anselmi, il regista in crisi creativa protagonista di “8½” di Federico Fellini. Guido è un regista di successo che decide di trascorrere un periodo di riposo in una stazione termale, così da poter lavorare con calma al suo nuovo film. Nonostante i buoni propositi, Guido è assediato da attori, amici, amanti, compagne, ruffianelli vari e, aspetto affatto secondario, dai ricordi d’infanzia, dai fantasmi dei genitori assenti, dai sogni e dalle fantasie più recondite e inconfessabili. In questo clima tutt’altro che pacificato, Guido si renderà conto di non essere in grado di portare a termine la sua opera, salvo sovvertire questa sua convinzione nell’atto stesso della rinuncia. Arresosi alla sua incapacità di portare a compimento il film che aveva (o non aveva) in mente, Guido darà forma all’impossibilità stessa di crearlo (e di mettere ordine nel suo vissuto), risolvendo il tutto in un grande girotondo cui partecipano tutti i personaggi della sua esistenza. La proiezione dal singolare all’universale è di lì a un passo, e Fellini sembra suggerircelo con un Guido finalmente soddisfatto di se stesso e del lavoro svolto. Impossibile non vedere un forte autobiografismo felliniano nella figura di Guido Anselmi. Fellini, infatti, aveva più volte avuto problemi (tanto tecnici quanto creativi) nella realizzazione delle sue opere. Problemi che riteneva ingiusti se paragonati ai grandi successi ottenuti. La lezione di Guido Anselmi (lezione che Fellini sembrerà riprendere in “Amarcord”) appare quindi quella che lo scavare nel ricordo e nel passato con occhio tanto lucido quanto sognante è una risposta al “blocco creativo” migliore di quella di imporsi una produttività forzata. Un accumulo costante e ininterrotto di innovazioni vuote, invece che un più ragionato ritorno a una sensibilità spesso dimenticata. Buone azioni per superare un blocco creativo? Guardare un bel film, leggere un buon libro, ascoltare dell’ottima musica, uscire per vedere una mostra fotografica. Forse non ci restituiranno la creatività perduta ma, per lo meno, ci terranno compagnia nell’atto di “sopportare” la sua assenza.

Nell’attesa che anche le nostre umide e stentate polluzioni si trasformino, come è stato per “8 ½ ”, nella «masturbazione di un genio».

Mastroianni crisi creativa

 

Buona crisi a tutti!